DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Come si fa una predica, senza tormentare i fedeli. Ce lo spiega Messori



Non v’è dubbio, almeno per la predica: se la messa ormai non è più un “sacrificio”, non è manco più una “mensa”,  è un rito penitenziale per i fedeli: un sadismo che gli viene inflitto da un tale con manie di protagonismo, che afflitto da logorrea spara supposte soporifere dal pulpito. Se non si “assiste” più alla messa, non si può neppure più parlare di “partecipazione”: la si subisce. L’omelia, dunque, è una delle questioni scottanti in cui ci si imbatte andando a messa. Pertanto riuscirà molto utile leggere il contributo di Vittorio Messori che già è intervenuto sul tema in passato e che qui di seguito ci offre le sue acute osservazioni. E “pochi punti” a uso e consumo del clero sul “come” si fa una predica, precisa, concisa ed efficace.

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1001458_10200579178534774_422173223_nIl Mastino

Durante l’omelia, vado al bar.

Una specie di premessa

Domenica scorsa ci avevo una voglia d’andare a messa che non vi dico! Capirai, pieno luglio a Roma, calura mortifera, noia; specie dopo aver pranzato al solito ristorante giapponese co ‘na mappazza sullo stomaco  che non ve dico. Sonno avevo, apatia, spossatezza. Eppure avevo tante piccole cose da fare, terminare, scrivere: voi credete che ho combinato niente? Macché! Ecco, con quest’animo pensavo di dover andare a messa. Capirai l’entusiasmo!
Con la consapevolezza che la messa normale è passata dall’essere Sacrificio di Cristo a un sacrificio dei fedeli. Oltre che di qualche dogma, va da sé. Nelle omelie in special modo. Il fatto è che alla messa in rito antico ci sarei pure andato volentieri, a S.S. Trinità dei Pellegrini. La preferisco se non altro perché dura mezzora, le prediche 5 minuti: mirate, pensate, studiate, linguaggio pertinente e spoglio. Un vero concentrato di scienza sacra e pietà cristiana, e di ognuna il nocciolo ti resta in testa per anni. Non ho mai dimenticato una sola predica (e ne sono nati spesso articoli, poi) della messa antica. Delle milioni di messe “moderne” della mia vita, con prediche durate qualche miliardo di minuti, invece, non ne ricordo manco una.
Gli è il fatto che la maggior parte di quelli che celebrano in rito antico, oltre a non avere problemi di fede, oltre ad avere una panoramica esatta ed ininterrotta del logos nella Chiesa così come s’è sviluppato dei secoli, oltre ad essere eruditi e magari colti – piuttosto che intellettualistici e fumosi come i preti “aggiornati” al 1968 –, oltre a non impossessarsi delle verità di fede facendone comizio dozzinale dove «Cristo è solo una scusa per parlar d’altro», a parte tutto questo, si sono tramandati la lunga tradizione dell’arte oratoria, omiletica, così come è stata trasmessa dal Tridentino in poi (ma pensiamo anche ai serafici predicatori del Medioevo, pensiamo all’insuperabile Bernardino da Siena, drammatico e comico), e che nelle forme e nei linguaggi era buona per tutti i fedeli di tutti i ceti sociali: essenziale, cristallina, piana, semplice, forte infine: la Chiesa è riuscita per secoli a spiegare i massimi sistemi a generazioni di contadini analfabeti… prima che diventasse “democratica” e populista per farsi infine solo capire dagli intellettuali clericali e dai comunistelli di sacrestia. Ma una volta, invece…. beh, era una giusta mistura di fuoco e ghiaccio, ardore e freddezza, e la bravura del curato stava tutta nel saper alternare e calibrare questi elementi al momento giusto. 
Il saper ben predicare non è un talento, è una scienza.
Oggi abbiamo preti “aggiornati” che stanno un’ora a strepitare come matti sull’altare, infervorandosi senza ragione, alzando la voce per niente e oltretutto senza dire nulla. E lì ti rendi conto di quanto aveva ragione il prof. Piero Vassallo, che mi diceva, sebbene riferendosi a questo pontificato, che «nella Chiesa di oggi governa il vuoto mentale, il non essere del pensiero. Persino padre Lombardi è vittima del surrealismo al potere». Don Massimo, un docente alla Sant’Anselmo, mi diceva che è la logica che fa difetto. Qualcuno già nel 1969 parlava dell’”intelligenza in pericolo di morte”. Niente di più vero! Ancora una volta la Chiesa (sana), e con più forti ragioni che in passato, dovrà difendere non tanto la fede, quanto la ragione. È una questione di logica, dunque, prima ancora che di dottrina.
È questo il punto: ma come fai a spiegare bene ai fedeli qualcosa che neppure tu hai capito e assimilato? Ma guarda che il fedele se ne accorge immediatamente quando sei un dilettante allo sbaraglio che cerca spasmodicamente di turlupinarlo sparandone una più grossa dell’altra; se ne accorge che sei la parodia di un oratore sacro.
Il problema dell’omiletica moderna, oltre alla cattiva educazione, è la scadente formazione umana e intellettuale del candidato al sacerdozio, prima che la carenza di fede. Persino per coloro che negli atenei cattolici arrivano agli studi più alti, quegli stessi studi talora non sono pertinenti e compatibili con la missione propria del presbitero, e l’omiletica ne risente. Ecco perché è anzitutto un problema di logos, di logica, di ragione prima ancora che di fede. La fede che non si installa su quelle cose è costruire castelli di sabbia in riva al mare, che le onde spazzeranno via al tramonto.
Insomma, tornando al fatto. Arrivo nella parrocchia di Santa Maria Goretti controvoglia e sperando in uno sciopero dei preti, ben sapendo cosa m’aspettava: minimo 35 minuti di predica monotona e logorroica, per giunta in un pessimo italiano essendo tutti stranieri i preti (purtroppo è così in Europa: ma si può?!), microfoni a tutta birra che ti fanno scoppiare i timpani, parole parole parole soltanto parole in libertà. Impossibilità di concentrarsi e mettersi in silente sintonia col Divino non essendo previsto un solo momento di silenzio; quindi la consacrazione di massimo 20 secondi, come un inutile orpello “che si deve fare”.
È stato così che ho maturato la mia decisione. Scandalosa, forse, per qualcuno, ma a me pare puro buonsenso, ottimizzazione del tempo: andare a messa vado, ma quando arriva la predica esco e vado in giro. Tanto non mi serve, non quella che fanno a Santa Maria Goretti almeno: niente eresie – almeno quando le dicono t’incazzi e ti senti vivo, ci hai qualcosa a cui pensare, te diverti insomma: qua manco eresie – mezzora e passa di cose che già so e meglio di chi le predica… dunque che ce resto a fa? Esco e poi ritorno a predica finita come nulla fosse.
Così ho fatto. Appena iniziata la estenuante predica: improvvisata, un profluvio di parole senza un nesso logico, senza sintassi, ripetitiva, pronunciata da un esagitato parroco straniero. Sono uscito, sono andato al bar, ho preso un caffè, fumato una sigaretta, fatto un giro alla Feltrinelli, comprato un  libro, sono tornato dopo una mezzora. Ancora stava a sproloquiare lo straniero, inarrestabile, e sempre alla «spiga di zizzania che somiglia a quella di grano, che sta nelle piantagioni in montagna» [sic!] sempre lì stava, come mezzora prima. Tra un sfarfallio di ventagli di anziani prossimi al collasso, di giovani ormai catatonici, gente che si stiracchiava e si contorceva per vincere il sonno, la noia, la pesantezza, il caldo, la smania di tornare seduta stante a casa. Tutti quanti forse pentiti di non aver fatto altro. Allora non ti meravigli che i poveri fedeli sono costretti a chattare sui cellulari, navigano su internet per ingannare il tempo durante l’omelia.
Non v’è dubbioalmeno per la predica: se la messa ormai non è più un “sacrificio”, non è manco più una “mensa”,  è un rito penitenziale per i fedeli: un sadismo che gli viene inflitto da un tale con manie di protagonismo, che afflitto da logorrea spara supposte soporifere dal pulpito. Se non si “assiste” più alla messa, non si può neppure più parlare di “partecipazione”: la si subisce.
Sentendo queste mie parole, un giovane prete dice: «Certamente in parte avete ragione… ma guardate che non è semplice predicare soprattutto quando dinanzi hai dei volti scocciati a priori». Gli faccio presente che la gente non è scocciata a priori: è spaventata dal pippone che sta per venire, perché sa che fa caldo, non finirà mai e sarà un verboso girare a vuoto. Predicare non è un’arte, è una scienza. «Messori in pochi punti (inascoltati) ha spiegato come si predica senza rompere timpani e maroni ai fedeli». La butto là.
Siccome, dopo queste mie parole, diversi preti me lo hanno chiesto, vi riporto pari pari quanto anni fa Vittorio Messori scrisse in diversi “Vivai” su Jesus (poi racchiusi in volumi, se non erro in “La sfida della fede”), spiegando in modo preciso e conciso “come” si dovrebbe fare una predica. Lo pubblico a tutto beneficio del clero.
*(eventuali errori di trascrizione sono opera mia, non dell’autore)

IL PROBLEMA DELL’OMELIA

Qualche sommesso consiglio

di un “fruitore” domenicale


  di Vittorio Messori

“Prediche”

Vittorio Messori
Vittorio Messori
Ha avuto ragione un mio collega, giornalista cattolico in un periodico laico, a precipitarsi sul computer di redazione – facendolo impennare come un cavallo spronato al galoppo – dopo aver sentito un giovane prete che, parlando in una messa dedicata a ragazzi distratti e scalpitanti, usava termini come «momento omiletico». Ma, pubblicato l’articolo concitato, quel cronista ha avuto ragione anche nel riconciliarsi presto, con un abbraccio sulla pubblica via, con il prete in questione, formato in una Chiesa che (per dirla con quella linguaccia senza peli che fu il mio amico André Frossard) «dopo il Concilio, per farsi più comprensibile all’uomo comune, è passata dal latino al greco…».
In effetti, greci sono i termini che infiorano i discorsi e gli scritti del clericale «adulto»: omiletica, appunto; ma anche carisma, catechesi, presbitero, kérygma, kénosis, sinassi, agape, dossologia, teandrico, escatologico, pneumatologico, parenetico, mistagogico, ecumenico, teurgico, esegetico, parresico, soteriologico… E via grecizzando: così, dicono, l’uomo d’oggi capisce meglio, mica come prima, con quel latinorum incomprensibile!
Non sono così sciocco da non sapere che simili termini sono un aspetto dello sforzo per cercare di tornare, anche nei nomi, alle radici della fede. Sforzo lodevolissimo, s’intende, almeno sino a quando quelle parole oscure non invadono anche le prediche e, in generale, il discorso rivolto a gente «normale», digiuna di facoltà teologiche.
Facile criticare, ma che altro fare?, potrebbe chiedermi chi, alla messa, giunti proprio al «momento omiletico», mi vedesse dar segni di insofferenza o, al contrario (càpita, càpita…), di sonnolenza. A chi mi apostrofasse, risponderei innanzitutto che «fare la predica» non è compito («carisma», in linguaggio aggiornato…) di me, laico. Anche se, non soprattutto, quel momento di predicazione e di esplicazione della Parola di Dio è legato al mistero della vocazione. Le sole cose che mi sembra di avere imparato dall’esperienza di chi, come me, è campato tutta la vita vendendo parole, riguardano più semplicemente il modo per indurre a iniziare la lettura di un articolo o di un libro e magari ad andare avanti, possibilmente sino alla fine. Senza alcuna pretesa di avere ragione (e ricordato che è assai più facile dare consigli che seguirli) vorrei esaminare assieme ai fratelli sacerdoti alcune di quelle regole e trucchi.
Se non mi sbaglio, in fondo dovrebbero valere per ogni tipo di comunicazione, sia scritta che parlata: e, dunque, per un articolo come per un’omelia.
Innanzitutto, dice una regola aurea di noi scribi, per sperare di passare con efficacia da chi lo enuncia a chi ne è destinatario, un messaggio, deve rispettare tre verbi: 1) semplificare; 2) personalizzare; 3) drammatizzare.
Vediamo, incominciando dal primo.
Letture consigliate
Letture consigliate
Semplificare significa, prima di ogni cosa, avere chiaro, chiarissimo quel che si vuol dire. Significa, poi, individuarne il nocciolo e puntare dritto su quello, eliminando i fronzoli, i preamboli, le digressioni. In questa stessa linea, semplificare significa ridurre a una – e a una soltanto – l’idea, la notizia, la provocazione, l’esortazione che, per quella volta, si vuole comunicare.
È sbagliato (e, dunque, inefficace) l’articolo che accumula argomenti diversi: tutto il contenuto deve poter essere sempre sintetizzabile in un titolo di pochissime parole. Da qui, il consiglio dei vecchi lupi di redazione: fare il titolo prima del pezzo, per imporsi la «gabbia» della notizia da cui non uscire, così che l’articolo non sia che uno spiegarla e un ribadirla.
Alla stessa stregua, mi sembrano sbagliate – e, dunque, anch’esse inefficaci – quelle prediche che vogliono trattare più argomenti. No: uno, uno soltanto! Invece di avventurarsi in spesso faticose ricerche di legami fra le tre letture bibliche della messa, meglio puntare su un unico versetto, su un solo tema, e fissarlo solidamente come un piolo, attorno al quale fare girare tutta quanta l’omelia di quella domenica.
Individuato, con chiarezza, il messaggio che, per quella volta, si vuol far passare; ridottolo al nocciolo; tenutolo ben fermo come punto centrale dal principio al termine (il respice finem della saggezza antica), il semplificare deve naturalmente applicarsi anche al linguaggio.
MARIA GIUSEPPINA MUZZARELLI Pescatori di uomini Predicatori e piazze alla fine del Medioevo
MARIA GIUSEPPINA MUZZARELLI
Pescatori di uomini
Predicatori e piazze alla fine del Medioevo. Letture consigliate
Nel rivolgersi a un pubblico indifferenziato, “interclassista”, come quello che frequenta la chiesa nelle feste o che legge i giornali, la regola giusta è: pensare sempre e solo al meno colto tra gli ascoltatori o tra i lettori. Senza preoccuparsi affatto di dispiacere così ai più acculturati: i quali, se lo sono davvero, apprezzano la semplicità; e, al contrario, sono tentati di ironizzare davanti a un predicatore che vuol fare «bella figura» e, proprio per questo, riesce incomprensibile agli uni e ridicolo agli altri.
In mezzo (e sono spesso la maggioranza) stanno coloro che non sono né colti né ignoranti. Bisogna però non illudersi: tutti i sondaggi mostrano come il cittadino «medio» conosca il significato vero solo di tremila parole, forse anche di meno. E i dizionari ne registrano venti, trenta volte di più. Ma queste «di più», anche se le conoscete, «per voi siano anatema» (per dirla con la Scrittura…) in un articolo, in un discorso in pubblico, in un’omelia. Abituandosi a sfogliare un dizionario dei sinonimi si avrà la sorpresa di constatare che non c’è quasi parola «difficile» che non abbia un equivalente più comprensibile a chi sta seduto su un banco di chiesa, in un giorno di festa.
Don Bosco era un uomo assai colto, anche se faceva finta di non esserlo e giocava abilmente la commedia del «povero prete contadino». Questo, non solo per raccogliere più offerte per i suoi ragazzi, commovendo i facoltosi, ma perché intendeva farsi davvero «tutto a tutti», seminare con la maggiore efficacia possibile. Dunque, invece di mostrarsi quel professore che era, si faceva sempre, e di proposito, semplice tra i semplici. Ma è ben noto che la sua piena conversione, in questo campo, risale a quella volta che mamma Margherita, data un’occhiata a un suo schema di predica, trovò san Pietro definito «clavigero». Chiesto al giovane figlio che volesse dire, e sentito che significava «colui che porta le chiavi», la donna domandò con stupore vero: «Ma allora, perché non dici così?». Da quel giorno, il Santo sottopose ogni suo testo alla madre (che aveva fatto l’equivalente della seconda elementare e il piemontese le era ben più consueto che l’italiano) e, dove questa non capiva, cambiava.
Trovando sempre la parola al contempo precisa e comprensibile pure da mamma Margherita. Anche così diventò un autentico leader della comunicazione e della cultura popolare con, tra l’altro, milioni di copie diffuse dei suoi libri e opuscoli di divulgazione religiosa. Sarebbero oggi da riscoprire, per imparare. Per quanto conta io l’ho fatto, esaminando alcuni di quegli innumerevoli testi con l’occhio del mestiere, non solo restandone ammirato ma prendendo nota anche di qualche trucco.
Letture consigliate. Qui sui predicatori medievali
Soprattutto un cristiano dovrebbe essere ben conscio di una verità: non esiste nessuna realtà o nessun concetto (per quanto «alti») che non possano essere espressi con parole comprensibili alla maggioranza. «Soprattutto un cristiano», dico, perché l’esempio più evidente che una tale impresa è praticabile la danno proprio i vangeli; in essi, il tema è il più vertiginoso possibile; ma la lingua è la più accessibile e popolare. È la koiné diálektos, il «dialetto ordinario», quello del popolo.
Se crediamo, dobbiamo anche credere (e trarne le conseguenze) che, per farci giungere la Sua rivelazione, Dio si è servito di scrittori dilettanti, ispirando loro parole evitate dagli intellettuali, ma che proprio per questo hanno cambiato il mondo. Senza dimenticare, naturalmente, che, se il mezzo dialetto di quei redattori improvvisati ha «funzionato», è perché era chiamato a riportare le parole di un artigiano galileo che aveva parlato in modo altrettanto comprensibile a tutti. Quando Dio ha deciso di parlare, non lo ha fatto come un professore; e neanche come certi teologi o predicatori.
Altra lezione che ci viene dall’esame della struttura sintattica e letteraria dei vangeli è la brevità dei periodi.
Si adeguano cioè alla regola che consiglia – sia parlando che scrivendo – di concludere ogni frase nel breve spazio di una espirazione. Al termine di questa, un punto, per permettere la inspirazione. Via dunque, per quanto possibile, le subordinate. E, al posto di quei «che» (così spesso nereggianti in tanti discorsi e testi, e al termine dei quali si è perso di vista il soggetto), tanti bei punti fermi.
Come diceva lo scafato capocronista a me, giovane praticante di redazione: «Mi raccomando: per ogni frase un soggetto, un verbo, un complemento oggetto, un punto. E se ti venisse voglia di aggiungere qualcosa – che so? un aggettivo – passa prima da me…». Una co-sa è il letterato, lo scrittore, il saggista che scrive per gli esperti o, almeno, per i colti. Altra cosa è il predicatore a una messa o il giornalista che conti di rivolgersi al maggior numero possibile di persone: per costoro, lo strumento di lavoro non è il cesello, ma il martello. Dopo ogni botta, un punto. E chi rischiasse di scandalizzarsi, non dimentichi che chi semplifica a vantaggio della comprensione non è per questo un semplicista: come i soliti evangelisti dimostrano.
Questo quanto al primo punto della «regola aurea» della comunicazione di massa: semplificare. Ma ci piacerebbe dire qualcosa su quel che ci sembra di avere imparato dall’esperienza anche sugli altri due verbi di cui dicevamo.

La ragione e il mistero

San Bernardino, il grande oratore "volgare", predica a Siena
San Bernardino, il grande oratore “volgare”, predica a Siena
Abbiamo cominciato a vedere a quali regole e «trucchi» dovrebbe adeguarsi un articolo, un discorso, una omelia (in genere, ogni forma di comunicazione umana) perché giunga al destinatario. E dicevamo che tre sono i binari da cui non deragliare: semplificare, personalizzare, drammatizzare.
Sul primo verbo qualcosa abbiamo detto: esso passa attraverso la reductio ad unum, la riduzione a un solo argomento per articolo (o predica), e attraverso la semplificazione, sia del linguaggio che della struttura della frase. Niente subordinate e, poi, meno virgole e più punti.
Il discorso, però, va completato, per non cadere in una trappola che è giusto il caso di dire «illuministica».
Nato in funzione spesso anticristiana (in effetti, sta alla base sia della Rivoluzione francese che di tutte le ideologie secolarizzate o atee che ne sono seguite) è l’illuminismo settecentesco che, tra i suoi obiettivi prioritari, pone la «divulgazione», il mito del «tutto comprensibile a tutti». La vasta officina dei «filosofi» che vogliono affrancarsi dalla tutela ecclesiale è la redazione della Grande Encyclopédie, il cui primo volume apparve nel 1751 e l’ultimo non molto tempo prima della convocazione degli Stati Generali, nel 1789, con la conseguente esplosione rivoluzionaria.
Direttori dell’opera furono i due famosi libertins (cioè «liberi pensatori») Diderot e D’Alembert che riunirono altri «spiriti forti», a cominciare da Voltaire e Rousseau, imprimendo all’Enciclopedia uno spirito razionalista. Quel gruppo, che rappresentava il meglio – o il peggio, a seconda dei punti di vista – dell’Europa «illuminata», era convinto che l’opera più urgente fosse dissipare il Mistero, perché è solo al suo riparo che può allignare il Sacro, dunque la religione. La Ragione, strumento principale per quest’opera di liberazione dalle superstizioni religiose, si esprime attraverso idee esatte che esigono un linguaggio chiaro, comprensibile a tutti gli uomini. I quali anche così, per mezzo del linguaggio con cui parlano pure le scienze naturali, possono trasformarsi in «cittadini consapevoli», uscendo dallo stato di «devoti», prigionieri dell’oscuro linguaggio dei teologi e, in genere, dei preti che, al riparo del latino, tengono la gente in schiavitù morale e materiale.
Predica probabilmente di san Giovanni da Capestrano, altro bernardiniano.
Predica probabilmente di san Giovanni da Capestrano, altro bernardiniano.
Dalla «fede», irragionevole per definizione, bisogna passare alla libera «opinione personale», che esige la conoscenza: e questa non può essere resa accessibile se non attraverso la chiarezza e la semplicità del linguaggio.
Dunque, mentre il prete ha come compitoquello della «predicazione» di oscure rivelazioni irrazionali, il nuovo sacerdote dell’umanità che è l’Intellettuale (questa tipica – e inquietante, come si vedrà poi in ciò che seguì – creazione del Settecento europeo) ha il dovere della «divulgazione» dei risultati di una Scienza che metta in fuga il mistero. Ovunque ci sia qualcosa che non tutti possono capire, lì si nasconde l’infâme (per usare il linguaggio di Voltaire), cioè la superstizione religiosa che va écrasée, schiacciata, distrutta dai Lumi.
Da qui, tutta la «mistica» laica creata non solo attorno all’ enciclopedia ma anche al manuale, all’istruzione popolare, al ciclo di conferenze, sino all’alluvione contemporanea di dibattiti, convegni, tavole rotonde. Frutti, questi, spesso degenerati, o almeno inutili, della ossessione illuminista di spiegare, di fare capire, di aiutare a formare «l’opinione», il «secondo me», da opporre al «secondo loro», che sarebbe poi l’accettazione della verità di qualunque fede.
Per tornare al nostro discorso: un credente, se prete soprattutto, dovrà essere consapevole di questo, quando applica la regola del semplificare. E, cioè, non dovrà dimenticare che il suo doveroso sforzo di farsi capire il più possibile dal maggior numero di persone, deve rispettare quello spessore di Mistero che accompagna la vita umana e che, pur dopo ogni «spiegazione» e «chiarificazione», la fede è chiamata ad accogliere.
In ogni suo aspetto, il cristianesimo autentico deve rispettare la dialettica dell’et-et: e, dunque, nel caso che ci interessa, le idee chiare e il linguaggio altrettanto chiaro del predicatore convivono necessariamente con l’Ineffabile (cioè con ciò che, per sua essenza, non si può esprimere) e con il Simbolo, strumento privilegiato col quale è possibile almeno alludere a simili realtà. Così, nel Nuovo Testamento, accanto alla lingua «comune», alle parole semplici per i concetti altrettanto semplici e chiari dei vangeli – soprattutto i tre primi, i Sinottici – sta la foresta di simboli dell’Apocalisse.
La storia della santità, accanto ai grandi «comunicatori popolari», ai geni della predicazione pure ai «rudi» come un san Bernardino da Siena, conosce la schiera dei mistici e delle mistiche. E «mistica» vuol dire «iniziazione al Mistero». «Misteriose», in effetti, non «divulgative», non accessibili a tutti sono molte delle pagine di quei privilegiati: ma, non per questo, sono meno «cristiane». Anzi, della fede costituiscono il vertice.
Predica di santo Francescano. Goya
Predica di santo Francescano. Goya
La parola dell’uomo può molto, ma non può tutto: ben lo sapevano le società religiose (come il medioevo) che conoscevano e praticavano il linguaggio del simbolo. Quel simbolo che anche gli analfabeti erano in grado di decodificare nelle lussureggianti foreste di pietra delle grandi cattedrali, mentre noi – con tutte le nostre lauree e diplomi e specializzazioni – ne abbiamo perso la chiave.
Questo et-et, questa unione di ragione e di mistero, di linguaggio e di simbolo, di parole comprensibili a tutti e di espressioni ineffabili, dovrebbe essere ciò che contraddistingue la liturgia. «Dovrebbe» perché, in realtà, mentre un tempo era forse squilibrata sul lato «misterico», ora lo è certamente su quello «razionale». Già accennammo al fatto che un eccesso di «illuminismo» sembra abbia presieduto alla riforma liturgica postconciliare, per qualche aspetto – purtroppo – frutto tipico dell’intellettualismo occidentale moderno. Pur fautore convinto come sono, da buon cronista, della necessità di «farsi capire» (necessità che ho difeso nelle righe precedenti), sono altrettanto convinto che uno spazio per il mistero vada salvaguardato: non tutto deve essere «sconsacrato» dal linguaggio della banalità quotidiana; la dialettica della fede esige che, accanto al profano, conviva il Sacro; che, accanto alla ragione, stia l’Enigma che si esprime con altri linguaggi che non quelli del giornale o del manuale.
Ancora e sempre l’et-et: quella sintesi difficile e quell’equilibrio rischioso di ciò che è apparentemente opposto (Pascal: «La fede afferma molte cose che sembrano contraddirsi»), senza cui il cristianesimo finisce o nell’eresia o nella ideologia culturale via via egemone. Che, oggi, dopo l’ubriacatura marxista, è quella del “politicamente corretto” liberal.
Così, in questa stessa linea, la necessità che l’uomo di comunicazione o di pastorale sia «divulgatore» al massimo, non esclude affatto che, nella Chiesa, ci debba essere chi pensa ed elabora le cose «difficili», senza le quali nulla ci sarebbe da divulgare. C’è, cioè, e deve restare, un ambito di cultura «alta», dove certi concetti, e i termini per esprimerli, non possono essere immediatamente comprensibili a chiunque. I secoli cristiani sentirono fortissimo il dovere di rivolgersi al popolo, di comunicare a tutti la «buona notizia», al punto da creare famiglie religiose specialiste in questo tipo di annuncio. Ma quei secoli conobbero anche le università dei grandi maestri, autori di complesse opere teologiche nel latino dei dotti. Vegliarono sempre, però, perché tra i due livelli ci fosse un costante collegamento, così che la semplicità della predicazione non finisse nel semplicismo, ma fosse alimentata dalla riflessione dei sapienti: e perché questi non si isolassero nei loro laboratori teologici, perdendo il contatto con la realtà e, dunque, con la gente. Ma, a questo punto, ci rendiamo conto che occorre concentrarsi sui due altri verbi: personalizzare e drammatizzare.

Idee astratte, persone concrete

Giovanni Tommasi Ferroni-"da quale pulpito"
Giovanni Tommasi Ferroni-”da quale pulpito”
Il personalizzare è il segreto dei media popolari ad alta tiratura, se di carta, e a share elevato se televisivi. In effetti, non si dimentichi mai che, all’uomo, interessa l’uomo. Se si vogliono trasmettere delle idee, le si faccia passare, più che attraverso un ragionamento astratto, attraverso le vicende di persone concrete con nome, cognome, età e possibilmente foto. Alla gente non importano i proclami, ma le esperienze; non le teorie, ma le storie. Di qualunque cosa vogliate parlare, evidenziatene il risvolto umano.
Dimenticate le parole che terminano con «-zione», perché quasi sempre esprimono non il calore della vita ma il gelo dei concetti (non a caso nereggiano nei funebri messaggi dei terroristi o nei poco meno lugubri comizi dei politici o nei comunicati dei sindacalisti demagoghi o negli articoli degli intellettuali sedicenti “democratici”). L’erudizione astratta uccide – si pensi alla sterilità della cultura accademica, che anche per dire «il cielo è azzurro» rinvia in nota a un autore che presso gli accademici stessi abbia diritto di cittadinanza –, la spontaneità vivifica. Il vostro lettore o ascoltatore non cerca in voi l’autore o il conferenziere o il predicatore ma l’uomo come lui. Riscoprite la sapienza pedagogica degli aneddoti, delle «favole» con la morale alla Esopo, alla La Fontaine, alla Basile. Ricordatevi che le cose che non avete più dimenticato sono quelle raccontate dalla nonna e che incominciavano con un «c’era una volta»…
Il monaco francescano Berthold von Regensburg
Il monaco francescano Berthold von Regensburg
Simili regole dovrebbero risuonareparticolarmente familiari ai cristiani, la cui fede va a un Dio ben diverso da ogni altro. Un Dio che, volendo comunicare con le Sue creature, non compilò manuali di istruzioni, né apparve dietro le nuvole per fare un discorso. Ma si scelse un uomo, Abramo, poi altri uomini, poi un popolo intero, mantenendo con esso, sempre, un rapporto da Persona a persona. Un rapporto «caldo», non freddo, non fatto di impersonali comunicazioni burocratiche.
Alla fine, quel Dio si fece Egli stesso Persona e il vertice del messaggio che voleva farci giungere lo comunicò con il ciclo di passione-morte-resurrezione-ascensione, culmine di quella che non a caso non si chiama la «teoria» o l’«ideologia», bensì la «storia» della salvezza. E, anche dopo, quel Dio continuò con il Suo stile, raggruppando i credenti in quella comunità di persone che è la Chiesa e mostrando come il Suo messaggio dovesse non tanto essere descritto con parole ma vissuto nei fatti, suscitando i testimoni che chiamiamo «santi».
È dunque questa vita, è questo rapporto da persona a persona, è questo narrare «storie» e «avventure», che assicurano l’efficacia di qualunque comunicazione tra uomini; ma che sono più che mai necessari per coloro che si dicono cristiani, quando vogliano comunicare ad altri ciò in cui credono. Che dovrebbe poi essere, innanzitutto, ciò che sperimentano nella loro storia di persone.
In questa prospettiva, si dovrebbe riscoprire – parlando e scrivendo – la prima persona singolare: io; tralasciando l’impersonale noi, non a caso caro all’algido stile accademico.
Ci vuol coraggio, certo: l’io è impegnativo, ci chiama in causa, ci compromette, autorizza chi ascolta a chiederci conto non della nostra teoria, ma della nostra coerenza concreta.
Ma tornare all’io (e al tu per l’interlocutore: non la massa, non la folla, non la classe o il partito, non l’umanità, ma proprio tu, uomo concreto, con il tuo nome) è presupposto per riscoprire l’autentico noi.
Parrocchia di Weiz, predica di padre Hannes Biber nell'ultima domenica di Carnevale
Parrocchia di Weiz, predica di padre Hannes Biber nell’ultima domenica di Carnevale
Volendone la riprova, si ricordi che i più efficaci tra gli annunciatori cristiani sono coloro che hanno cercato non di essere «autori» ma uomini, testimoni, avendo appunto la temerarietà di dire “io”: un Agostino, un Pascal, un Kierkegaard. Le Confessioni, i Pensieri, il Diario: ecco gli inesauribili best e long-seller dell’anima, perché in essi troviamo l’esperienza, la vita, la persona.
L’intellettuale moderno crede di dovere usare soltanto la ragione (la “sua” ragione, che giudica infallibile) e per questo è così sovente illeggibile, inascoltabile, inutile quando non dannoso.
Segreto del «comunicare» cristiano dovrebbe essere invece l’aggiungere all’intelligenza il sentire, il gioire, il patire, perché le coeur a ses raisons que la raison ne connait point.
Personalizzare, per essere ascoltati ed efficaci, anche perché la cultura e l’intelligenza ci dividono. Ma l’umanità, l’esperienza, il patire e il gioire davanti alle grandi scelte della vita, alle grandi allegrezze e ai grandi dolori tutto questo ci unisce.
Personalizzare, dunque, ma anche drammatizzare. «Dramma» significa «azione», parola derivata a sua volta dal verbo greco che vuol dire «fare, agire». E, dunque, in un primo senso, drammatizzare è infondere nella comunicazione il «dramma» dell’agire: proporre ciò che si deve pensare, raccontando (o, meglio, mostrando) che cosa si deve fare. Ma drammatizzare significa anche utilizzare per il bene quel bisogno di antagonismo se non di scontro, di belligeranza, che c’è al fondo del cuore di ciascuno di noi e che solo un utopico «pacifismo», che nulla sa né vuol sapere delle profondità del cuore umano, può ignorare o negare. Quel bisogno di antagonismo, oscuro e al contempo naturale (e che può dunque essere volto al bene come al male), lo conosce e lo coltiva efficacemente per i suoi fini la stampa popolare per eccellenza o la chiacchiera televisiva col maggiore indice di ascolto: quella sportiva.
Pulpito barocco del 1713 di M. van der Voort il Vecchio.
Pulpito barocco del 1713 di M. van der Voort il Vecchio.
Al di là dei discorsi dei rètori, degli ipocriti “politicamente corretti”, lo sport di massa è guerra, è un mimare la battaglia, coinvolge così profondamente perché sollecita l’istinto di opporsi, sino alla violenza, seppure necessariamente trattenuta.
Una partita «amichevole», dove non conti il vincitore o il vinto, fa sbadigliare; nessuno andrebbe a vedere un match, una corsa, un qualsiasi incontro sportivo se non ci fossero classifiche, trionfatori e sconfitti, incoronati e umiliati.
Ogni analisi del linguaggio sportivo – soprattutto quello calcistico, il più popolare, – mostra come sia ricalcato su quello militare: «attaccanti», «difensori», «tattica», «strategia», «cannoniere», «sbarramento», «sfondamento», «ritirata», «bottino», «riserve»; e via enumerando. Per ripeterlo ancora: perché non riflettere sul fatto che «La Gazzetta dello sport» è il più diffuso (e il più appassionatamente letto) tra i quotidiani italiani, che le trasmissioni radiotelevisive sportive sono quelle con il più alto indice d’ascolto e che i loro giornalisti sono i più popolari? Perché, nel discorso religioso, dal pulpito o per iscritto che sia, non utilizzare la stessa tattica, che è poi quella di individuare un antagonista perché la passione dell’uomo si risvegli e resti desta?
Ancora si vedono, in certe chiese, due pulpiti: le prediche erano fatte a contraddittorio: da una parte il «buono», dall’altra il «cattivo», destinato a soccombere, ma dopo una lotta. Quelle vecchie, benefiche volpi della pastorale che crediamo anacronistica avevano in realtà individuato un segreto della comunicazione che abbiamo voluto dimenticare nella disastrosa melassa buonista che nulla ha a che fare con la bontà, quella vera. Una predica o un articolo tanto più appassioneranno quanto più saranno «drammatici»; quanto più ritroveranno, cioè, degli antagonisti, dei «nemici». Non delle persone, certo. Ma perché non delle idee? Perché non il diavolo? Perché non noi stessi e il peccato che è in noi?
Il più grande predicatore di tutta la cattolicità: Bernardino da Siena
Il più grande predicatore di tutta la cattolicità: Bernardino da Siena
Insomma: volere comunicare senza semplificare può confondere invece che illuminare; dimenticarsi di personalizzare porta all’insignificanza di idee che scorrono sulla roccia e non scendono in profondo; senza drammatizzare, si ha un discorso che, mancando di antagonista, non è più umano, si affloscia, provocando non attenzione e passione, ma sguardi all’orologio per vedere se la predica sta per finire.