DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Papa Francesco. Le omelie dal 2 al 9 dicembre: La consolazione più forte è quella della misericordia e del perdono




La consolazione più forte è quella della misericordia e del perdono
Giovedì, 4 dicembre 2014  


“Aprire le porte alla consolazione del Signore”. Francesco ha preso spunto, nella sua omelia, dalla prima lettura in cui il profeta Isaia parla della fine della tribolazione di Israele dopo l’esilio a Babilonia. “Il popolo – ha commentato - ha bisogno di consolazione. La stessa presenza del Signore consola”. Una consolazione, ha soggiunto, che c’è anche nella tribolazione. E tuttavia, ha ammonito “noi, al solito, fuggiamo dalla consolazione; abbiamo sfiducia; siamo più comodi nelle nostre cose, più comodi anche nelle nostre mancanze, nei nostri peccati. Questa – ha detto - è terra nostra”. Invece, ha affermato, “quando viene lo Spirito e viene la consolazione ci porta ad un altro stato che noi non possiamo controllare: è proprio l’abbandono nella consolazione del Signore”.
Francesco sottolinea che “la consolazione più forte è quella della misericordia e del perdono”. E ha così rivolto il pensiero alla fine del XVI capitolo di Ezechiele, quando dopo “l’elenco di tanti peccati del popolo”, dice: “Ma io non ti abbandono; io ti darò di più; questa sarà la mia vendetta: la consolazione e il perdono”, “così è il nostro Dio”. Per questo, ha ripreso, “è buono ripetere: lasciatevi consolare dal Signore, è l’unico che può consolarci”. Anche se “siamo abituati ad affittare consolazioni piccole, un po’ fatte da noi”, ma che poi “non servono”. Di qui, si è soffermato sul Vangelo odierno, tratto da Matteo, che parla della parabola della pecorella smarrita:
Io mi domando quale sia la consolazione della Chiesa. Così come quando una persona è consolata quando sente la misericordia e il perdono del Signore, la Chiesa fa festa, è felice quando esce da se stessa. Nel Vangelo, quel pastore che esce, va a cercare quella pecora smarrita, poteva fare il conto di un buon commerciante: ma, 99, se ne perde una non c’è problema; il bilancio… Guadagni, perdite… Ma va bene, possiamo andare così. No, ha cuore di pastore, esce a cercarla finché la trova e lì fa festa, è gioioso”.
“La gioia di uscire per cercare i fratelli e le sorelle che sono lontani: questa – ha evidenziato Francesco – è la gioia della Chiesa. Lì la Chiesa diventa madre, diventa feconda”:
Quando la Chiesa non fa questo, quando la Chiesa si ferma in se stessa, si chiude in se stessa, forse si è ben organizzata, un organigramma perfetto, tutto a posto, tutto pulito, ma manca gioia, manca festa, manca pace, e così diventa una Chiesa sfiduciata, ansiosa, triste, una Chiesa che ha più di zitella che di madre, e questa Chiesa non serve, è una Chiesa da museo. La gioia della Chiesa è partorire; la gioia della Chiesa è uscire da se stessa per dare vita; la gioia della Chiesa è andare a cercare quelle pecore che sono smarrite; la gioia della Chiesa è proprio quella tenerezza del pastore, la tenerezza della madre”.
La fine del brano di Isaia, ha spiegato, “riprende questa immagine: come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna”. Questa, ha detto il Papa, “è la gioia della Chiesa: uscire da se stessa e diventare feconda”:
Il Signore ci dia la grazia di lavorare, essere cristiani gioiosi nella fecondità della madre Chiesa e ci guardi dal cadere nell’atteggiamento di questi cristiani tristi, impazienti, sfiduciati, ansiosi, che hanno tutto perfetto nella Chiesa, ma non hanno ‘bambini’. Che il Signore ci consoli con la consolazione di una Chiesa madre che esce da se stessa e ci consoli con la consolazione della tenerezza di Gesù e la sua misericordia nel perdono dei nostri peccati”.   


Senza trucco sulla roccia
Giovedì, 4 dicembre 2014


Dalla «tentazione di tanta brava gente» a essere cristiana «solo di apparenza», con addosso «il trucco» che però si scioglie alla prima pioggia, ha messo in guardia Francesco nella messa celebrata giovedì mattina, 4 dicembre, nella cappella della Casa Santa Marta. E ha rilanciato la testimonianza di tanti «cristiani di sostanza», che costruiscono la loro vita sulla «roccia di Gesù» e vivono la «santità nascosta», giorno per giorno.

Oggi in entrambe le letture — tratte dal libro di Isaia (26. 1-6) e dal Vangelo di Matteo (7, 21.24-27) — la Chiesa, ha fatto subito notare Francesco, «parla della fortezza di un cristiano e della debolezza; di roccia e di sabbia». Infatti «il cristiano è forte quando non solo dice di esserlo, ma quando fa la sua vita come cristiano, quando mette in pratica la dottrina cristiana, le parole di Dio, i comandamenti, le beatitudini». Il punto centrale è, difatti, «mettere in pratica».

Invece, ha rimarcato il Papa, «ci sono i cristiani di apparenza soltanto: persone che si truccano da cristiani e nel momento della prova hanno soltanto il trucco». E «noi sappiamo cosa succede a una donna truccata quando va per la strada e viene la pioggia e non ha l’ombrello: tutto viene giù, le apparenze finiscono per terra». Quella del trucco, del resto, «è una tentazione» ha riconosciuto Francesco. Così non basta dire «io sono cristiano, Signore» per esserlo veramente. È Gesù stesso a dire che non basta ripetere «Signore! Signore!» per entrare nel suo regno. Bisogna fare «la volontà del Padre» e mettere «in pratica la Parola». Ecco, dunque, la differenza tra «il cristiano di vita» e quello solo «di apparenza».

Del resto, ha spiegato il Pontefice, è chiaro come «ci vuole il Signore». Anzitutto, «un cristiano di vita è fondato sulla roccia». Del resto Paolo lo dice chiaramente quando «parla dell’acqua che usciva dalla roccia nel deserto: la roccia era Cristo, la roccia è Cristo». Quindi l’unica cosa che conta è «soltanto essere fondato sulla persona di Gesù, sul seguire Gesù, per la strada di Gesù». Francesco ha confidato di aver incontrato «tante volte gente non cattiva, gente buona, ma che è vittima di questa mania della “cristianità delle apparenze”». Gente che dice di se stessa «io sono di una famiglia molto cattolica; io sono membro di quella associazione e anche benefattore di quell’altra». Ma, secondo il Papa, la vera domanda da porre a queste persone è: «dimmi, la tua vita è fondata su Gesù? La tua speranza dov’è? Su quella roccia o su queste appartenenze?».

Ecco l’importanza di «essere fondato sulla roccia». Del resto «abbiamo visto tanti cristiani delle apparenze che crollano alle prime tentazioni, cioè alla pioggia». E infatti «quando i fiumi straripano, quando i venti soffiano — le tentazioni e le prove della vita — un cristiano dell’apparenza cade, perché non c’è sostanza lì, non c’è roccia, non c’è Cristo». Dall’altra parte, invece, ci sono i «tanti santi che abbiamo nel popolo di Dio — non necessariamente canonizzati, ma santi! — tanti uomini e donne che portano la loro vita in Cristo, che mettono in pratica i comandamenti, mettono in pratica l’amore di Gesù. Tanti!».

E il Papa ha voluto ricordare la loro testimonianza. «Pensiamo — ha detto — ai più piccoli; agli ammalati che offrono le loro sofferenze per la Chiesa, per gli altri». E, ancora, «pensiamo a tanti anziani soli che pregano e offrono. Pensiamo a tante mamme e padri di famiglia che portano avanti con tanta fatica la loro famiglia, l’educazione dei figli, il lavoro quotidiano, i problemi, ma sempre con la speranza in Gesù» e «che non si pavoneggiano, ma fanno quello che possono».

Davvero, ha ribadito Francesco, «ci sono santi della vita quotidiana». E ha invitato a pensare anche «a tanti preti che non si fanno vedere, ma che lavorano nelle loro parrocchie con tanto amore: la catechesi ai bambini, la cura degli anziani, degli ammalati, la preparazione ai novelli sposi. E tutti i giorni lo stesso, lo stesso, lo stesso. Non si annoiano perché nel loro fondamento c’è la roccia». Sono persone che vivono in «Gesù: è questo che dà santità alla Chiesa; è questo che dà speranza». 

Ecco perché, ha proseguito il Papa, «dobbiamo pensarci tanto alla santità nascosta che c’è nella Chiesa, quella dei cristiani non di apparenza ma fondati sulla roccia, su Gesù». Guardare a quei «cristiani che seguono il consiglio di Gesù nell’Ultima Cena: “Rimanete in me”». Sì, «cristiani che rimangono in Gesù». Certo, «peccatori, tutti lo siamo». Così quando «qualcuno di questi cristiani fa qualche peccato grave» poi si pente, chiede perdono: e «questo è grande». Significa avere «la capacità di chiedere perdono; di non confondere peccato con virtù; di sapere bene dove è la virtù e dove è il peccato». Anche da questo si comprende che sono cristiani «fondati sulla roccia e la roccia è Cristo: seguono il cammino di Gesù, seguono Lui».

Nella prima lettura, ha spiegato il Pontefice, Isaia «parla di una città forte che ha salvezza, che segue Dio, che è giusta: un popolo forte. La città è un popolo. Un popolo forte. La sua volontà è salda e Dio gli assicura la pace: pace per chi confida in Lui». E poi aggiunge: «Confidate nel Signore sempre, perché il Signore è una roccia eterna, perché egli ha abbattuto coloro che abitavano in alto». E cioè, ha commentato Francesco, «i superbi, i vanitosi, i cristiani di apparenza saranno abbattuti, umiliati». Dice ancora Isaia: «Ha rovesciato la città eccelsa, l’ha rovesciata fino a terra, l’ha rasa al suolo». Proprio «così finiscono i cristiani di apparenza» ha rimarcato il Papa riproponendo, dunque, l’immagine di Isaia: da una parte «le rovine di una città» e poi «l’altra città, l’altra casa, salda, robusta perché è fondata sulla pietra».

Il passo di Isaia ha suggerito a Francesco un’altra riflessione. «Mi hanno fatto pensare — ha detto — gli ultimi due versetti della prima lettura». Il riferimento è «a questa città che è caduta, questa città vanitosa, questa città che non era fondata sulla roccia di Cristo». Si legge infatti: «I piedi la calpestano: sono i piedi degli oppressi, i passi dei poveri». È un’espressione, ha affermato, che «ha odore di vendetta». Sì, «sembra una vendetta», ma «non è vendetta».

Anche «la Madonna, nel suo canto, lo aveva detto: Lui ha rovesciato i potenti dai troni, ha umiliato i superbi». E «i poveri saranno quelli che trionferanno, i poveri di spirito, quelli che davanti a Dio si sentono niente, gli umili» che «portano avanti la salvezza mettendo in pratica la parola del Signore». Invece, ha ripetuto Francesco, «tutto il resto è apparenza: oggi ci siamo, domani non ci saremo». E ha citato san Bernardo: «pensa, uomo, cosa sarà di te, pasto dei vermi». Perché «ci mangeranno i vermi a tutti» e «se non abbiamo questa roccia, finiremo calpestati».

Proprio «in questo tempo di preparazione al Natale chiediamo al Signore di essere fondati saldi nella roccia che è Lui, la nostra speranza è Lui» ha concluso il Papa. È vero, «noi siamo tutti peccatori, siamo deboli, ma se mettiamo la speranza in Lui potremo andare avanti». E «questa è la gioia di un cristiano: sapere che in Lui c’è la speranza, c’è il perdono, c’è la pace, c’è la gioia». Perciò non ha senso «mettere la nostra speranza in cose che oggi sono e domani non saranno».




Solo l’umile comprende
Martedì, 2 dicembre 2014


La grandezza del mistero di Gesù si può conoscere solo umiliandosi e abbassandosi come ha fatto lui, che è arrivato al punto di essere «emarginato» e non si è certo presentato come un «generale o un governatore». Gli stessi teologi, se non fanno «teologia in ginocchio», rischiano di dire «tante cose» ma di non capire «niente». Essere umili e miti, dunque, è il suggerimento proposto da Francesco, martedì mattina, 2 dicembre, nella messa celebrata nella cappella della Casa Santa Marta.

«I testi liturgici che ci offre oggi la Chiesa — ha fatto subito notare il Pontefice — ci avvicinano al mistero di Gesù, al mistero della sua persona». E infatti, ha spiegato, il passo liturgico del Vangelo di Luca (10, 21-24) «dice che Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e lodò il Padre». Del resto, «questa è la vita interiore di Gesù: il suo rapporto col Padre, rapporto di lode, nello Spirito, proprio lo Spirito Santo che unisce quel rapporto». E questo è «il mistero dell’interiorità di Gesù, quello che lui sentiva».

Gesù infatti — ha proseguito Francesco — «dichiara che chi vede lui, vede il Padre». Dice precisamente: «Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza». E «nessuno sa chi è il Figlio, se non il Padre. E nessuno sa chi è il Padre, se non il Figlio, e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo».

Il Padre, ha ribadito il Papa, «soltanto il Figlio lo conosce: Gesù conosce il Padre». E così «quando Filippo è andato da Gesù e ha detto: “mostraci il Padre”», il Signore gli risponde: «Filippo, chi vede me, vede il Padre». Difatti «è tanta l’unione fra loro: lui è l’imago del Padre; è la vicinanza della tenerezza del Padre a noi». E «il Padre si avvicina a noi in Gesù».

Francesco ha quindi ricordato che «in quel discorso di congedo, dopo la Cena», Gesù ripete tante volte: «Padre, che questi siano uno, come te e me». E «promette lo Spirito Santo, perché è proprio lo Spirito Santo che fa questa unità, come la fa tra il Padre e il Figlio». E «Gesù esulta di gioia nello Spirito Santo».

«Questo è un po’ per avvicinarsi a questo mistero di Gesù» ha spiegato il Pontefice. Ma «questo mistero non è rimasto soltanto fra loro, è stato rivelato a noi». Il Padre, dunque, «è stato rivelato da Gesù: lui ci fa conoscere il Padre; ci fa conoscere questa vita interiore che lui ha». E «a chi rivela questo, il Padre, a chi dà questa grazia?» si è chiesto il Papa. La risposta la dà Gesù stesso, come riporta Luca nel suo Vangelo: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli».

Perciò «soltanto quelli che hanno il cuore come i piccoli sono capaci di ricevere questa rivelazione». Soltanto «il cuore umile, mite, che sente il bisogno di pregare, di aprirsi a Dio, si sente povero». In una parola, «soltanto quello che va avanti con la prima beatitudine: i poveri di spirito».

Certo, ha riconosciuto il Papa, «tanti possono conoscere la scienza, la teologia pure». Ma «se non fanno questa teologia in ginocchio, cioè umilmente, come i piccoli, non capiranno nulla». Magari «ci diranno tante cose, ma non capiranno nulla». Poiché «soltanto questa povertà è capace di ricevere la rivelazione che il Padre dà tramite Gesù, attraverso Gesù». E «Gesù viene non come un capitano, un generale di esercito, un governante potente», ma «viene come un germoglio», secondo l’immagine della prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia (11, 1-10): «In quel giorno, un germoglio spunterà dal tronco di Iesse». Dunque, «lui è un germoglio, è umile, è mite, ed è venuto per gli umili, per i miti, a portare la salvezza agli ammalati, ai poveri, agli oppressi, come lui stesso dice nel quarto capitolo di Luca, quando è alla sinagoga di Nazareth». E Gesù è venuto proprio «per gli emarginati: lui si emargina, non ritiene un valore innegoziabile essere uguale a Dio». Infatti, ha ricordato il Pontefice, «umiliò se stesso, si annientò». Egli «si è emarginato, si è umiliato» per «darci il mistero del Padre e il suo proprio».

Il Papa ha rimarcato che «non si può ricevere questa rivelazione fuori, al di fuori, del modo in cui Gesù la porta: in umiltà, abbassando se stesso». Non si può mai dimenticare che «il Verbo si è fatto carne, si è emarginato per portare la salvezza agli emarginati». E «quando il grande Giovanni Battista, in carcere, non capiva tanto come erano le cose lì, con Gesù, perché era un po’ perplesso, invia i suoi discepoli a fare la domanda: “Giovanni ti domanda: sei tu o dobbiamo aspettare un altro?”».

Alla richiesta di Giovanni, Gesù non risponde: «Sono io il Figlio». Dice invece: «Guardate, vedete tutto questo, e poi dite a Giovanni cosa avete visto»: ossia che «i lebbrosi sono sanati, i poveri sono evangelizzati, gli emarginati sono trovati».

Risulta evidente, secondo Francesco, che «la grandezza del mistero di Dio si conosce soltanto nel mistero di Gesù, e il mistero di Gesù è proprio un mistero di abbassarsi, di annientarsi, di umiliarsi, e porta la salvezza ai poveri, a quelli che sono annientati da tante malattie, peccati e situazioni difficili».
«Fuori da questa cornice — ha ribadito il Papa — non si può capire il mistero di Gesù, non si può capire questa unzione dello Spirito Santo che lo fa gioire, come avevamo sentito nel Vangelo, nella lode del Padre, e che lo porta ad evangelizzare i poveri, gli emarginati».

In questa prospettiva, nel tempo di Avvento, Francesco ha invitato a pregare per chiedere la grazia «al Signore di avvicinarci più, più, più al suo mistero, e di farlo sulla strada che lui vuole che noi facciamo: la strada dell’umiltà, la strada della mitezza, la strada della povertà, la strada di sentirci peccatori» Perché è così, ha concluso, che «lui viene a salvarci, a liberarci».