DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Cina. Il paese di Mao si converte. Pechino teme l’onda cristiana

GIAMPAOLO VISETTI

ENTRO quindici anni la Cina potrebbe diventare
la nazione con il maggior numero
di cristiani al mondo, superando
Stati Uniti, Brasile e Messico. Il Paese
simbolo dell’ateismo di Stato, uscito
solo alla fine degli anni Ottanta dalle persecuzioni
anti-religiose di Mao Zedong, teme che la rinascita
della fede in un dio possa attenuare la fedeltà
in un partito, minando la stabilità dell’autoritarismo
di Stato.
Nel mirino del presidente Xi Jinping finisce in
particolare il cristianesimo, religione che secondo
Pechino ispira più in generale i valori dell’Occidente,
a partire da quelli democratici. La censura
comunista impedisce di avere dati certi sulla crescita
di protestanti e cattolici, che se non si riconoscono
nelle associazioni cinesi, governate dal partito,
restano perseguitati e costretti alla clandestinità.
Il sociologo Yang Fenggang, autore di numerosi
studi sulla storia delle religioni in Cina, calcola
però che entro il 2030 i cristiani cinesi potrebbero
sfiorare i 250 milioni, rispetto ai 61 del 1949,
anno della vittoria della rivoluzione comunista. In
sei decenni, nonostante l’ostilità politica, anche i
cattolici sono ufficialmente triplicati, passando da
3 a 9 milioni, il doppio rispetto alla crescita demografica
nazionale. Mentre Pechino torna a dichiarare
guerra alle “credenze straniere”, la Chiesa
sommersa rivela che i cattolici cinesi potrebbero
in realtà già sfiorare i 20 milioni e che i protestanti
entro il 2025 potrebbero toccare quota 160 milioni.
Un vero e proprio boom, considerata la crescente
laicizzazione di Europa e Usa, che giustifica l’allarme
che negli ultimi mesi suona nella Città Proibita.
La leadership rossa ha seguito con grande attenzione
la doppia visita di papa Francesco in Asia,
spintosi in Corea del Sud, Sri Lanka e Filippine nel
giro di sei mesi. In entrambi i viaggi, per la prima
volta, il pontefice ha ottenuto il permesso di sorvolare
la Cina e ha inviato la sua benedizione al popolo
cinese, senza ottenere risposta da Pechino. Le
diplomazie sono riservatamente al lavoro per riaprire
relazioni ufficiali interrotte nel 1951, i segnali

di apertura si alternano agli stop, ma la prodismo
spettiva di una cristianizzazione cinese pone ostacoli
nuovi a un dialogo che il Vaticano considera oggi
decisivo.
A fine gennaio l’Amministrazione statale per
gli affari religiosi, che per conto del partito controlla
ogni aspetto dei culti riconosciuti, si è detta
pronta a consacrare nuovi vescovi, senza l’autorizzazione
pontificia. L’ultima ordinazione risale
al 2012 e da allora i negoziati si erano orientati sulla
possibilità che Pechino scegliesse i vescovi all’interno
di una rosa di nomi proposta da Roma.
Lo strappo di Xi Jinping sarebbe ispirato da tre
obiettivi: impedire un incontro tra papa Francesco
e il Dalai Lama, già naufragato in extremis in dicembre,
costringere il Vaticano ad allontanarsi politicamente
da Taiwan e da Hong Kong, riconoscendo
solo le autorità della Repubblica popolare
cinese, e rallentare il più possibile la conversione
dei cinesi al cristianesimo, per poterla controllare.
L’incubo di Pechino, impegnata a rilanciare bud-
prodismo
e confucianesimo quali «fedi tradizionali e
patriottiche», è la saldatura tra le religioni e i valori
politici dell’Occidente. Urbanizzazione, crescita
della classe media, soggiorni di studio all’estero,
boom dei consumi e del web, minacciano l’ideologia
unica dello Stato socialista. Per milioni di giovani
colletti bianchi cinesi, ormai turisti appassionati
dell’Europa, abbracciare la fede cristiana è
spesso una moda, un’esibizione di snobismo, o una
forma di opposizione meno pericolosa al regime.
Per questo Pechino, decisa a trasformare il buddismo
nel collante culturale del Paese e nell’arma
per reprimere l’islam nello Xinjiang, negli ultimi
mesi ha posto il diffondersi delle religioni occidentali
e dei valori democratici sullo stesso piano, ordinando
di «contenere siti di culto eccessivi e attività
religiose troppo popolari». Xi Jinping ordina
di ricostruire i monasteri buddisti distrutti dalle
Guardie rosse di Mao, trasforma la città natale di
Confucio nella meta obbligata di pellegrinaggi di
Stato e avvalla l’abbattimento delle chiese e la demolizione
delle croci. Un documento riservato del
politburo osserva che «un partito con 80 milioni di
iscritti può essere messo in difficoltà da una Chiesa
occidentale con 250 milioni di fedeli» e che in autunno
i cattolici sono stati i più attivi sostenitori
della rivolta pro-democratica degli studenti a
Hong Kong.
Il governo la scorsa primavera ha anche ordinato
ai funzionari locali di «arginare i culti importati
dall’Occidente» e di «promuovere invece le più
controllabili tradizioni culturali cinesi». Le settimana
scorsa il ministero dell’Istruzione ha messo
al bando i testi occidentali dalle università, intimando
che «l’insegnamento dei valori occidentali
non deve più avere spazio negli atenei della nazione
». Il pugno che Pechino abbatte sulla “cultura
straniera” è lo stesso che colpisce la “fede importata”,
nemici che Xi Jinping definisce «contrabbandieri
di idee e valori democratici in meno
di una generazione». Le aperture si limitano dunque
alle “chiese patriottiche”, soggette al partito,
mentre la libertà di culto si profila sempre più condizionata
all’ascesa dell’influenza globale del Paese.
Una Cina “intollerante” non può guidare il mondo:
ma una Cina «minata dalle religioni che hanno
segnato la storia dell’Occidente» rischia di non riuscire
a farlo.

La Repubblica 12 febbraio 2015