LODE CON #RISERVA AL CULTO CIVICO
di Giovanni Marcotullio
La Croce 4 febbraio 2015
Mentre seguivo lo snodo della cerimonia
di insediamento di Sergio
Mattarella, da Montecitorio al
Quirinale passando per l’Altare della Patria,
mi sembrava di risentire le parole del
caustico Padre Pizarro di Guzzanti: «Ma
tenémoseli ’sti vestitini, ’sti cappellini, ’sti
ceri... poi, aoh, è tutta gente che lavora:
che è ’sto cinismo?». Parlava della liturgia
cattolica, chiaramente, ma il paragone è
tutt’altro che gratuito: di una vera e propria
liturgia si è trattato.
Una tentazione da evitare, in questo come
in altri casi, è quella di concludere affrettatamente
che insomma è stato concesso
– per dirla con le ottocentesche parole di
Bartolo Longo – «il trionfo alla religione e
la pace all’umana società». Niente affatto,
e per più di un buon motivo: il primo e più
importante è che perlomeno da quando fu
scritta la Lettera ai Romani qualcuno (l’ebreo
di Tarso, nella fattispecie) aveva insegnato
ai cristiani a diffidare delle “pompe”
(ci torno tra poco), dal momento che il
culto doveva essere pubblico, sì, ma spirituale
(Rom 12,1-13), perché il regno di Dio
non è questione di processioni e rinfreschi
(parafrasando Rom 14,17). Ora, spirituale
significava per Paolo e significa tuttora per
i cristiani l’esatto opposto di ciò che i materialisti
intendono col termine, tanto che
il “culto spirituale” si fa “offrendo i corpi”.
Senza addentrarci ora in questioni esegetiche,
il punto è che il culto spirituale si fa
coi fatti e non con le chiacchiere, con le
leggi e non portando corone.
Tutto questo senza in alcun modo voler
sminuire l’opportunità, la sensatezza e
perfino la bellezza di occasioni di culto
pubblico come quella che ieri ha (giustamente)
paralizzato Roma e che i media
hanno portato in ogni casa d’Italia.
Manzoni scriveva che la patria si definisce
in funzione di “arme”, “lingua”, “altare”,
“memorie”, “sangue” e “cor”: le armi e il
sangue evocavano allora lo sforzo risorgimentale,
mentre oggi fanno pensare più
alle grigie cartelle esattoriali; le memorie
e la lingua si celebravano allora nei licei e
nelle targhe in ogni strada, oggi quest’ultima
la cura soprattutto mamma televisione
(coi risultati che sappiamo) e le prime vivono
in apposite “giornate”, come in riserva;
il cuore – bisogna darne atto – gli Italiani
ce lo mettono sempre, e tanto, ma un
altare ci vuole lo stesso. Lo sapevano pure
gli architetti e i committenti sabaudi (in
buona parte massoni) che alla fine del XIX
secolo hanno progettato nel Monumento
a Vittorio Emanuele II – il futuro “Altare
della Patria” – il simbolo della religione civile
della “Giovine Italia”: lo sapevano così
bene che la distruzione di Via dell’Aracoeli,
dei tre chiostri della chiesa di Santa
Maria e della torre di Paolo III fu reputata
un sacrificio necessario a tanto scopo
(in realtà non stavano nella pelle all’idea
di poter simboleggiare con l’oscuramento
della basilica che dominava il Campidoglio
l’avanzata delle “magnifiche sorti e progressive”
sull’“oscurità medievale”).
Beghe trascorse, certo, e non vale la pena
stare a stuzzicarle, anche se negli ultimi
anni qualche presidente della Repubblica
ha mostrato viva commozione davanti
al «simbolo dell’eredità di valori che le
generazioni del Risorgimento ci hanno
affidato» (così Ciampi nel 2003). È facile
che le emozioni si riversino nella retorica,
durante le “pompe”, ma basta visitare
il “monumento al bersagliere” a Porta Pia
(senza scomodare i libri) per ricordare che
a quella stessa “eredità di valori” si richiamava
continuamente, e non solo per legittimarsi,
anche la retorica mussoliniana
e fascista (per di più, quella volta Ciampi
– comunque al di sopra di certi sospetti
– parlò perfino di una “nuova giovinezza”
del monumento). Sarebbe stupido partire
di qui per affibbiare etichette a destra e a
manca, ma forse non lo è chiedersi se davvero
la magmatica “eredità di valori” risorgimentali
– da Ciampi compendiata quella
volta in “unità della Patria” e “libertà dei
cittadini” – sintetizzi esaustivamente il
cuore della “religione civile” italiana, e se
l’altare della Patria rispecchi veramente
il generoso cuore degli Italiani (nonché il
sangue lungamente versato).
È innegabile che la stessa prossimità ai fori
imperiali (guarda caso riaperti ed esaltati
durante il ventennio fascista proprio in
connessione col culto pubblico) e all’antico
colle dei sacra sollemnia romani abbia
tentato romanticamente di ricollegarsi a
un trascorso popolare non cristiano, con la
speranza, subito frustrata, di ripristinarlo
sul cristianesimo. L’utopica impresa non
riuscì all’imperatore Giuliano, con l’impero
convertito da appena un paio di generazioni,
dunque non c’è motivo di stracciarsi
le vesti per le velleità dei grembiulini.
Il paradosso, semmai, è che nello stesso
monumento sabaudo balena l’adynato, la
pretesa impossibile, di una religione civile
che voglia fare a meno del cristianesimo:
mentre infatti si accolse il proposito di
non inserire figure antropomorfe se non a
scopo allegorico – e questo escludeva en
passant la rappresentazione di crocifissi (e
croci), che allegorici non sono – si scelse
di ornare il basamento dell’immane statua
equestre di Vittorio Emanuele II con gli
stemmi dei più grandi comuni d’Italia – e lì
le croci tornarono a fioccare, perché i comuni
d’Italia erano già stati fatti quando le
direttive anticlericali dei grembiulini non
erano neppure pensabili.
Ne è risultata un’ironica allegoria politicoreligiosa,
dove simbolicamente l’icona del
re d’Italia viene sorretta da uno stuolo di
croci: allora come oggi, infatti (oggi almeno
de iure, se non de facto, allora perlomeno
idealmente, se neanche de iure)
Tutto questo senza in
alcun modo voler sminure
l’opportunità, la sensatezza
e perfino la bellezza della
liturgia politica, anzi.
Purché operi, però,
ciò che significa
l’autorità del Capo dello Stato italiano si
fondava sul popolo; la sua attuale prerogativa
di garante delle istituzioni ha come
punto di riferimento formale la Carta costituzionale
– la quale però «non è un totem
intoccabile» (parole recentissime di
Mattarella) – e come orizzonte primo ed
ultimo quel popolo che, esercitando mediatamente
la propria sovranità, lo ha eletto
per sette anni.
Che nel discorso in Parlamento Mattarella
abbia menzionato per sei volte il “popolo”
e per sette i “cittadini” (mentre solo per
tre volte ciascuna le parole “istituzioni” e
“legge”/“legalità”) è segno sicuro del “genere
letterario” del culto pubblico: dall’intento
latino di relegare i cives viene il
concetto di “religione civile” e dalle radici
greche dei termini “laos” e “pòlis” prende
il nome la “liturgia politica” – di cui ieri abbiamo
visto un ben riuscito esempio.
Ha l’intento di cementare il popolo, una
liturgia politica, e per questo ricorre all’evocazione
del sangue e delle armi, preferibilmente
fatta davanti a un altare (e
difatti il Vittoriano è diventato nel sentire
comune “l’altare della Patria” dal 1921,
quando ai piedi della “dea Roma” furono
deposte le reliquie del “Milite Ignoto”,
il quale appunto morì da soldato e non,
che so, da pasticcere). La religione civile
vuole consolidarne l’unità, e per questo fa
largo uso della lingua comune usando parole
che tocchino il cuore (non per altro
l’inno nazionale viene suonato per più di
una volta durante la cerimonia). Sembra
che da quest’analisi resti un po’ trascurata
la memoria, che resta in fondo l’anima di
ogni liturgia.
Se si ripensa a come nel medioevo si
chiamassero “sacramenta”, tra le tante
cose, anche le incoronazioni di sovrani e
i grandi gesti di governo, si può senz’altro
dire – senza tema che qualcuno ci accusi
di violare il canone tridentino dei sette
sacramenti – che abbiamo assistito ieri a
un “sacramentum”. Speriamo che servano,
questo e altri “sacramenti” simili (come la
parata del 2 giugno) a “operare ciò che
significano” (così fanno i sacramenti istituiti
da Cristo), cioè l’unità del popolo e la
libertà dei cittadini. Quando “sacra sollemnia”
sono riusciti in questo intento, dall’antica
Roma in qua, non sono mai stati soldi
buttati, perché la coesione (bene primario
di ogni comunità) non è un lusso che un
popolo possa scegliere di non concedersi,
e ciò vale anche (se non soprattutto)
in tempo di crisi. E teniamoli allora, come
suggeriva Padre Pizarro, questi pennacchi,
queste sciabole, questi tamburini e questi
trombettieri a cavallo.
Viceversa, però, non si dimentichi che
“liturgia” significa “ciò che esprime il popolo”.
Pare che fuori dal Quirinale, benché
frastornata dalle “pompe” (ossia dal
corteo), la gente si augurasse pace e lavoro,
e che così rispondesse ai giornalisti
che chiedevano invece esplicitamente le
impressioni sul rito al Vittoriano e sulla
“pompa” di autorità civili e militari.
Ogni liturgia rischia di diventare vuoto
estetismo, se perde il contatto con la memoria
grata di un popolo. Lo “spirito”, cioè
i fatti, diranno se sarà stato questo il caso
oppure no.
Al Quirinale torna un cattolico senza prediche
Renato Farina
Non ha nominato Dio.
Non ha citato ilVangelo.
Non si è ispirato alla figura di santi.
Da questo
si capisce che con Sergio
Mattarella è tornato un cattolico
al Quirinale. Un tipo
di cattolico alla Cossiga e allaMoro(se mai fosse andato
sul Colle). Non c'entrano
qui le differenze di idee politiche
e di temperamento. Li
unifica lo stile alieno da inflessioni
bigotte, da genuflessioni
esibite (...)
(...) nel momento in cui si agisce in
quanto autorità dello Stato. In privato
tutto: preghiere, letture, adorazioni
eucaristiche, processioni. Cossig astette
rigidamente in piedi davanti a papa
Giovanni Paolo II da capo dello Stato
(dall’85al’92). Lo vidi con l’anca e il femore rotti gettarsi
ai piedi di papa Ratzinger da senatore a vita (2007). Anche
Andreotti era della stessa pasta: messa
e comunione tutte le mattine, ma poi
discuteva e qualche volta dava ragione
al diavolo. I cattolici non sono islamici.
Non identificano i poteri di Dio e
di Cesare. Del resto la nostra civiltà si
fonda sull’idea cristiana di libertà purificata da scontri e incontri con l’illuminismo.
Questo non comporta affatto che un
presidente cattolico metta il suo credo
tra parentesi. Sarebbe una cosa ben
miserabile la fede se non plasmasse le
scelte decisive di una persona. Ma la responsabilità
è tua, solo tua, caro Sergio
- gli dice la Chiesa.
In questo senso, essere cattolici lascia molto più liberi e in un certo senso
più soli che essere comunisti. Il Partito
comunista ha sempre avuto la pretesa
di essere una Chiesa con i suoi sacramenti e le sue scomuniche.
Ma non esiste laicità tra i comunisti.
Non esiste distinzione tra coscienza personale e direzione
del partito. Giorgio Napolitano ne è stata
la prova. Il primo interesse
è stata la Ditta.
Un cattolico liberale alla Cossiga
mette davanti la coscienza. Obbedisce
a essa. Al Papa e alla coscienza.
Spesso è un dramma. Ma, senza, la vita
sarebbe banale. Cossiga si batté come un leone perché fosse portato sugli
altari il cardinale John Henry Newman.
Benedetto XVI lo ascoltò facendolo
beato. E beatificò le celebri parole:
«Se fossi obbligato a introdurre la religione
nei brindisi dopo un pranzo (il
che in verità non mi sembra proprio la
cosa migliore), brinderò, se volete, al
Papa; tuttavia prima alla coscienza,
poi al Papa».
Il Dio cristiano si è incarnato e il suo
Vicario sta a San Pietro: non è il Grande Architetto dei massoni che sta a dormires opra
le nuvole. Dioc’è e c’entra.
Ma poi te la giochi con Lui l’ultimo giorno.
Non ci sono fatwe o ukaze del Comitato
centrale. Il Papa non manda
pizzini.
Ho paragonato Mattarella a dei giganti.
Abbasso subito l’asticella. Bisogna
vederlo negli atti, quanto salterà
in alto. Per ora si coglie questa sua dimensione
di cattolicesimo quotidiano
da come ha pronunciato la frase
«sostenere la famiglia risorsa della società» (non ha detto «le» famiglie). Ha
ripetuto 12 volte, ed è stato il sostantivo
più usato, «volto/volti»: quello
«spensierato dei bambini», quelli dei
malati. Non le alture delle grandi visioni:
ma scorgere l’infinito nelle facce.
È tornata fuori la questione se Mattarella sia stato avversato dai
«ciellini» in
memoria di antiche contrapposizioni.
Non esiste. Proprio no. Storie diverse,
ma che c’entra? Di certo il suo percorso è passato attraverso altri maestri
e amicizie, ma la Chiesa è grande e noi
siamo piccoli uomini, che duriamo un
attimo. Di che militanza sia lo attesterebbero le lacrime di Rosy Bindi durante il suo discorso:
in effetti sono stati entrambi dirigenti
dell’associazionismo
cattolico diciamo così di sinistra, con
preferenza data ai teologi rahneriani,
scusate l’arabo. Dunque talebani pauperisti.
Ma no. C’è qualcosa di più profondo:
la comunanza nello stesso tipo
di dolore. Rosy assisté agli ultimi respiri del suo maestro Vittorio Bachelet ucciso
dai colpi delle Br, nelle braccia di
Sergio spirò il fratello Piersanti, straziato da Cosa nostra.
Da quella mescolanza di fede e sangue amato derivò il loro
impegno politico. Questo li rende non
banali. Avversabile, avversabilissima
la Rosy; Sergio vedremo.
Ho citato Cossiga, quasi fosse l’ultimo cattolico lassù sul Colle.
Qualcuno
mi dirà: e Oscar Luigi Scalfaro? Alt! In
realtà l’ultimo presidente cattolico
che ha avuto l’Italia è stato Ciampi.
L’Osservatore Romano lo ha certificato pubblicando un’intervista di Arrigo
Levi. Testimonia Ciampi:«Sua Santità
mi invitava la mattina. Lui dicev amessa
nella sua piccola cappella, nel suo
appartamento, alla presenza di poche
suore. Andavamo con mia moglie. Seguivamo
la messa». Passava per laico
azionista. Si convertì? Successe qualcosa.
Vide papa Wojtyla a tu per tu. Dopo pochi istanti ci fu
«non dico una confessione,
ma un incontro in cui ci
aprimmo il cuore. Ricordo che mi commossi.
Nessuno lo seppe». Misteri. Ma
cattolico lo diventò. Secondo il cardinale Dziwisz,
stava per capitare la stessa
cosa tra Giovanni Paolo II e il suo
amico Pertini. Si recò per vederlo in
punto di morte. Ma la moglie Carla gli
sbarrò la porta. E Oscar Luigi Scalfaro.
Questi sì ufficialissimamente cattolico.
Pubblicò un libro con le sue prediche.
Non alludiamo a discorsi, ma proprio a omelie.
Il titolo era«Amen!». Chi
sono io per giudicare. Lascio perciò la
parola a Ciriaco De Mita: «Per amor di
Dio. Sergio è un cattolico vero, siciliano,
coerente. Scalfaro era un ipocrita,
un clericale del nord». Amen!
C’è un cattolico
(vero) al Colle
di Marco Politi
Torna sulla scena politica,
e ai massimi livelli,
una personalità
cattolica – fortemente
cattolica dal punto di vista
della fede e della cultura –
mentre sono ormai naufragati i
tentativi di ricreare un partito
confessionale e in una fase cui
papa Francesco ha sancito che
il Vaticano non vuole assolutamente
più muovere pedine
nella politica italiana. Perché
tocca alla Cei interloquire con
le istituzioni della Repubblica.
È un evento degno di attenzione,
non senza cogliere i due paradossi
che lo caratterizzano.
IL PRIMO è che al suo “capo -
lavoro” (l’elezione di Mattarella)
il king-maker Matteo Renzi
è stato costretto. Sospinto quasi
fisicamente a cercare una personalità
dal profilo alto e non
manovrabile in seguito al rifiuto
dei suoi interlocutori politici
di accettare ciò che nei mesi
passati aveva in mente: un “tec -
nico” o qualche altra invenzione,
magari ammantata dalla retorica
di un nome femminile. Il
che dimostra che con Renzi si
può trattare soltanto da posizioni
di fermezza (come è accaduto
con il rinnovo della
Corte costituzionale e del Consiglio
superiore della magistratura,
quando in Parlamento
vennero rimandate al mittente
proposte inadeguate. Idem,
quando Napolitano gli ha impedito
di procedere a nomine
inconsistenti per la carica di
ministro degli Esteri poi ricoperta
da Gentiloni). Il secondo
paradosso è che sin dalle prime
sue parole Sergio Mattarella ha
evidenziato che cosa sia sul serio
la tradizione cattolica democratica
e sociale, mostrando
in controluce le debolezze culturali
che contrassegnano l’agi -
re del presidente del Consiglio.
A fronte di un premier, che per
paura di sporcare la sua immagine
di “vincente” fugge sistematicamente
dal disagio sociale
–si tratti dell’alluvione di Genova
o dei tumulti razzisti di
Tor Sapienza – il nuovo presidente
della Repubblica ha evocato
per prima cosa le difficoltà
degli italiani, ha rivolto la sua
attenzione alla gente comune
che non può partecipare ai deliri
della Leopolda dove si inneggia
con tifo da stadio “al posto
fisso che non c’è più”, ha ricordato
le ferite sociali del Paese,
mettendo in luce ciò che nella
narrazione renziana non esiste
mai: l’aumento, in questa
crisi, di ingiustizie, nuove povertà,
emarginazione e solitudine.
È un primo spartiacque tra una
cultura cattolica nutrita dal
concilio Vaticano II – senza bisogno
di scomodare papa Francesco,
che pure si muove sulla
stessa lunghezza d’onda – e lo
stile alla Matteo che privilegia
soltanto il rapporto con i Soggetti
Forti (si ricordi l’impegno
fulmineo con cui ha bloccato la
Google Tax e l’insistito schierarsi
con Marchionne a prescindere).
Per vivere in politica
una “idea del cattolicesimo”,
come si è formato al meglio nel
Novecento, non basta certo
qualche frettolosa frequentazione
di scoutismo.
Il cardinale Bagnasco notava
giorni fa il tormento che colpisce
“moltissime famiglie che
non arrivano da tempo alla fine
del mese, anziani che attendono
le loro magre pensioni mangiando
pane e solitudine, giovani
che hanno paura per il loro
futuro incerto”. Questo orizzonte
è assente dai proclami del
premier, ma ben presente nella
mente del presidente Mattarella.
Intriso del cattolicesimo socialmente
impegnato (nutrito degli
insegnamenti dei papi che
vanno da Giovanni XXIII al
Giovanni Paolo II, da Paolo VI
a Francesco) è anche l’impera -
tivo, contenuto del discorso del
giuramento del nuovo capo
dello Stato, a combattere mafia
e corruzione. Due termini introvabili
nel discorso di investitura
di Renzi al Senato. E si
farebbe torto all’intelligenza di
Matteo attribuirlo a distrazione.
C’è ancora un dato che salta agli
occhi. Il primo passo di Mattarella
è stato di andare alla Fosse
Ardeatine, le sue parole sulla
Resistenza e la lotta al nazifascismo
sono un chiaro riallacciarsi
al cattolicesimo politico
repubblicano, nato dall’oppo -
sizione alla dittatura fascista.
Un richiamo alla “memoria”
nazionale, che a Berlino come a
Parigi come a Washington non
viene mai archiviata, ma che
non dice nulla ad un premier
che si è vantato di una “profon -
da sintonia” con Silvio Berlusconi,
notoriamente smemorato
su questi temi.
DUNQUE, c’è un cattolico al
Quirinale. Una prova, valida
per stagioni future, che il cattolicesimo
può essere produttivo
anche senza casacca partitica.
E una boccata d’aria fresca
in un panorama politico generalmente
privo di cultura, in
omaggio alla rottamazione delle
visioni del mondo. Potrebbe
forse servire a rilanciare finalmente
l’idea che la politica ha
bisogno di un retroterra culturale.
Speriamo.
ALDO BONOMI: MATTARELLA E LA VOGLIA DI COMUNITÀ
Giuseppe Frangi
(Vita.it)
Sette volte la parola comunità ricorre nel testo, per altro breve, con cui il neo presidente Sergio Mattarella si è presentato oggi in Parlamento. Una parola attorno alla quale Aldo Bonomi ha lavorato con anni di ricerche, di riflessioni, di percorsi sul campo. Una parola che sembrava essersi drammaticamente persa nel marasma della globalizzazione e che oggi invece viene richiamata con chiarezza e con lucidità al primo posto delle priorità.
Sorpreso da questa insistenza di Mattarella sul tema della comunità?
A posteriori no. La sua formazione discende dal personalismo cristiano alla Mounier e quindi ci sta che il tema della comunità assuma un posto centrale nella sua visione.
Non rischia di essere una propsettiva passatista?
Nient’affatto. Per un motivo che è molto chiaro nel percorso fatto da Mattarella in questo suo primo discorso pubblico da presidente. Lui è partito dalla constatazione che oggi ci troviamo di fronte alla solitudine dei soggetti, come conseguenza di altre emergenze come l’ingiustizia, la disparità sociale, la povertà. La solitudine è l’esito più grave di queste ferite sociali. È partendo da questa constatazione che Mattarella si pone il tema della comunità. È un tessuto di comunità, il livello a partire dal quale si possono affrontare le emergenze sociali che assillano la vita di tanti. Questo ha una conseguenza, molto chiara nello stile di Mattarella.
Quale?
Che esprime una concezione diversa di leadership. Il leader non è quello che trascina il consenso di cittadini disposti a seguire, ma è colui che sollecita la mobilitazione degli stessi cittadini. Pur nella sobrietà estrema dello stile, il discorso è un discorso che punta a mobilitare.
Tornando al tema della comunità, è importante questa insistenza di Mattarella?
Certamente. Anche perché è una categoria evocata al fianco di situazioni diverse. Parla di comunità per quel che riguarda le relazioni internazionali. Ma ne parla anche per indicare la questione dell’immigrazione, dove fa riferimento non genericamente agli stranieri, bensì alla “comunità degli stranieri”. Anche in questo caso è un cambio di prospettiva, perché si riconosce non la somma sociologica degli individui, ma l’articolazione di cittadini che si mettono insieme. Come ho accennato, la comunità è vista come risposta alla solitudine. Un‘idea che è emersa molto chiara nel finale del discorso dove Mattarella si è augurato che l’Italia sia «popolo che si senta davvero comunità».
Mattarella, la buona commozione
Marina Corradi Avvenire 4 febbraio 2015
L'aula di Montecitorio gremita e composta, come nelle grandi occasioni. Applausi, molti, caldi, per le parole del presidente. Parole belle, ponderate, quasi, si potrebbe dire, accoglienti: come pensate per includere il Paese intero, con le sue differenze e i suoi travagli, e portarlo idealmente in quell’aula. Siamo abituati a un Parlamento spaccato e frammentato, siamo abituati agli scontri e agli insulti; e anche sappiamo che quei deputati e senatori sono espressione solo di una parte del Paese – perché in molti, ormai, nemmeno vanno più a votare.
Eppure la faccia e le parole di Sergio Mattarella producono su chi sta ad ascoltarlo una commozione: perché riescono a risvegliare un sentimento di unità. Un’unità, dice schiettamente il presidente, «difficile, fragile, lontana» e insidiata dalla crisi con le sue crescenti povertà. Eppure un’unità che occorre ritrovare.
Altre parole, l’assemblea applaude ancora. Molte volte. Fa uno strano effetto, questa concordia fra uomini normalmente tanto divisi. Ma sarà vera, ti chiedi, o avrà ragione il corsivetto di un militante sul blog di Grillo, che insinua che gli onorevoli applaudono solo perché ora si sentono il posto garantito? Commento cinico, e però sai che anche questo stanno dicendo nei bar.
E però dalla faccia e dalla voce di Mattarella emana qualcosa che tiene avvinto chi ascolta. Quella mitezza forse, cui non siamo più abituati. La fermezza che indovini dietro agli occhi chiari. E quella volontà di includere tutti, perché non sia estraneo nessuno. E’ l’accenno alle nuove forze politiche emerse in Parlamento, e ai giovani deputati, e alla loro capacità di indignazione, cui Mattarella chiede di farsi costruttiva capacità di cambiare.
È la coscienza del dramma che si consuma nel Mediterraneo e lascia ogni giorno sulle coste nostre, ma coste anche d’Europa, uomini, donne e bambini, in fuga e sfiniti. È, soprattutto, l’immagine finale, che guarda fuori dall’aula, alle strade italiane. «Il volto della Repubblica – dice il presidente – è quello che si presenta nella vita di tutti i giorni: l’ospedale, il municipio, la scuola, il tribunale...».
Vero. La Repubblica, agli occhi nostri, è in quegli edifici grandi, spesso vecchi, sulla cui facciata sventola, magari ingrigito e sfilacciato, il tricolore. Sono le aule dei nostri figli, le solenni scale dei tribunali, le sale d’attesa degli ospedali. Posti in cui andiamo per chiedere qualcosa di importante: maestri e professori degni, e giudici capaci di giustizia, e medici che ci sappiano curare. La Repubblica è anche nelle facce che incontriamo in quei corridoi. Dove andiamo trepidanti, sapendo le lungaggini della burocrazia e l’affanno degli sportelli sovraffollati – oppure l’indifferenza che raggela. La Repubblica abita lì, e noi ne abbiamo bisogno, e insieme ne proviamo diffidenza e amarezza, troppo avendo saputo di corruzioni, sperperi, inefficienze.
E tuttavia Mattarella, i suoi occhi trasparenti, le parole misurate e quasi succinte – come avesse voluto evitarne scrupolosamente qualsiasi di inutile – sortiscono in molti di noi che stiamo a ascoltare una commozione cui, stupiti, cediamo. Qualcosa di simile a ciò che prende ascoltando l’inno di Mameli: per quanto disincantati siamo, si affaccia tenace la consapevolezza di una comune storia e appartenenza.
Avviliti dai vizi e dalla inconsistenza di questa Italia, sfiduciati come siamo in tanti, il volto e l’espressione di questo giurista siciliano tuttavia ci hanno costretto a starlo a ascoltare. A desiderare di credergli. A pensare che forse possiamo sperare.
Sono i richiami a ciò che ci tiene insieme – mentre sempre fra noi parliamo di ciò che divide. Il nome del piccolo Stefano Taché, ucciso nell’attacco terrorista alla Sinagoga di Roma, nel 1982: «Aveva solo due anni. Era un nostro bambino», dice Mattarella, ed è bello quell’accento – «nostro», figlio di tutti noi. Bello perché ricorda che, ancora, siamo un popolo. E allora la sfiducia con cui guardiamo all’Italia, da amarezza verso gli "altri", si converte nella coscienza che l’Italia siamo anche noi. Serve, dice il Presidente, «la tenace mobilitazione di tutte le risorse», perché la democrazia non è una conquista definitiva, ma si fa ogni giorno. Ogni mattina, di nuovo. (Mentre, oscure ma vicine, incombono spaventevoli minacce di nemici che vorrebbero cancellare la nostra civiltà).
E quindi siamo rimasti a guardare la faccia di quest’uomo che dicono della Prima Repubblica, con un po’ di speranza che spingeva per farsi largo nella nostra stanchezza di italiani della Seconda. Ingenui, sentimentali, sciocchi? Siamo abituati a dubitare e diffidare. Ma non concedendo fiducia a nessuno non si vive, non si va avanti. Lasciamo allora che la faccia mite di quest’uomo salito al Quirinale ci spinga, singolarmente, a sperare.
Eppure la faccia e le parole di Sergio Mattarella producono su chi sta ad ascoltarlo una commozione: perché riescono a risvegliare un sentimento di unità. Un’unità, dice schiettamente il presidente, «difficile, fragile, lontana» e insidiata dalla crisi con le sue crescenti povertà. Eppure un’unità che occorre ritrovare.
Altre parole, l’assemblea applaude ancora. Molte volte. Fa uno strano effetto, questa concordia fra uomini normalmente tanto divisi. Ma sarà vera, ti chiedi, o avrà ragione il corsivetto di un militante sul blog di Grillo, che insinua che gli onorevoli applaudono solo perché ora si sentono il posto garantito? Commento cinico, e però sai che anche questo stanno dicendo nei bar.
E però dalla faccia e dalla voce di Mattarella emana qualcosa che tiene avvinto chi ascolta. Quella mitezza forse, cui non siamo più abituati. La fermezza che indovini dietro agli occhi chiari. E quella volontà di includere tutti, perché non sia estraneo nessuno. E’ l’accenno alle nuove forze politiche emerse in Parlamento, e ai giovani deputati, e alla loro capacità di indignazione, cui Mattarella chiede di farsi costruttiva capacità di cambiare.
È la coscienza del dramma che si consuma nel Mediterraneo e lascia ogni giorno sulle coste nostre, ma coste anche d’Europa, uomini, donne e bambini, in fuga e sfiniti. È, soprattutto, l’immagine finale, che guarda fuori dall’aula, alle strade italiane. «Il volto della Repubblica – dice il presidente – è quello che si presenta nella vita di tutti i giorni: l’ospedale, il municipio, la scuola, il tribunale...».
Vero. La Repubblica, agli occhi nostri, è in quegli edifici grandi, spesso vecchi, sulla cui facciata sventola, magari ingrigito e sfilacciato, il tricolore. Sono le aule dei nostri figli, le solenni scale dei tribunali, le sale d’attesa degli ospedali. Posti in cui andiamo per chiedere qualcosa di importante: maestri e professori degni, e giudici capaci di giustizia, e medici che ci sappiano curare. La Repubblica è anche nelle facce che incontriamo in quei corridoi. Dove andiamo trepidanti, sapendo le lungaggini della burocrazia e l’affanno degli sportelli sovraffollati – oppure l’indifferenza che raggela. La Repubblica abita lì, e noi ne abbiamo bisogno, e insieme ne proviamo diffidenza e amarezza, troppo avendo saputo di corruzioni, sperperi, inefficienze.
E tuttavia Mattarella, i suoi occhi trasparenti, le parole misurate e quasi succinte – come avesse voluto evitarne scrupolosamente qualsiasi di inutile – sortiscono in molti di noi che stiamo a ascoltare una commozione cui, stupiti, cediamo. Qualcosa di simile a ciò che prende ascoltando l’inno di Mameli: per quanto disincantati siamo, si affaccia tenace la consapevolezza di una comune storia e appartenenza.
Avviliti dai vizi e dalla inconsistenza di questa Italia, sfiduciati come siamo in tanti, il volto e l’espressione di questo giurista siciliano tuttavia ci hanno costretto a starlo a ascoltare. A desiderare di credergli. A pensare che forse possiamo sperare.
Sono i richiami a ciò che ci tiene insieme – mentre sempre fra noi parliamo di ciò che divide. Il nome del piccolo Stefano Taché, ucciso nell’attacco terrorista alla Sinagoga di Roma, nel 1982: «Aveva solo due anni. Era un nostro bambino», dice Mattarella, ed è bello quell’accento – «nostro», figlio di tutti noi. Bello perché ricorda che, ancora, siamo un popolo. E allora la sfiducia con cui guardiamo all’Italia, da amarezza verso gli "altri", si converte nella coscienza che l’Italia siamo anche noi. Serve, dice il Presidente, «la tenace mobilitazione di tutte le risorse», perché la democrazia non è una conquista definitiva, ma si fa ogni giorno. Ogni mattina, di nuovo. (Mentre, oscure ma vicine, incombono spaventevoli minacce di nemici che vorrebbero cancellare la nostra civiltà).
E quindi siamo rimasti a guardare la faccia di quest’uomo che dicono della Prima Repubblica, con un po’ di speranza che spingeva per farsi largo nella nostra stanchezza di italiani della Seconda. Ingenui, sentimentali, sciocchi? Siamo abituati a dubitare e diffidare. Ma non concedendo fiducia a nessuno non si vive, non si va avanti. Lasciamo allora che la faccia mite di quest’uomo salito al Quirinale ci spinga, singolarmente, a sperare.