DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

"Scelsi di essere comunista durante la guerra. Il mio lavoro è sparito. Ora non ho più nessun attaccamento alla vita". Parlando di fallimenti, amori e morte con Rossana Rossanda



Repubblica, domenica 1° febbraio

Sommersi come siamo dai
luoghi comuni sulla vecchiaia
non riusciamo più a
distinguere una carrozzella
da un tapis roulant. Lo stereotipo
della vecchiaia sorridente
che corre e fa ginnastica
ha finito con l’avere
il sopravvento sull’immagine ben più mesta
di una decadenza che provoca dolore e
tristezza.
Guardo Rossana Rossanda, il suo inconfondibile
neo. La guardo mentre i polsi
esili sfiorano i braccioli della sedia con le
ruote. La guardo immersa nella grande
stanza al piano terra di un bel palazzo sul
lungo Senna. La guardo in quel concentrato
di passato importante e di presente incerto
che rappresenta la sua vita.
Da qualche parte Philip
Roth ha scritto che
la vecchiaia non è una
battaglia, ma un massacro.
La guardo con
la tenerezza con cui si
amano le cose fragili
che si perdono. La
guardo pensando che
sia una figura importante
della nostra storia comune.
Legata al partito
comunista, fu radiata
nel 1969 e insieme, tra
gli altri, a Pintor, Parlato,
Magri, Natoli e Castellina,
contribuì a fondare
il manifesto. Mi
guarda un po’ rassegnata
e un po’ incuriosita.
Qualche mese fa ha perso
il compagno K. S. Karol.
«Per una donna come
me, che ha avuto la fortuna
di vivere anni interessanti,
l’amore è stato un’esperienza
particolare. Non
avevo modelli. Non mi ero
consegnata alle aspirazioni delle
zie e della mamma. Non volevo essere come
loro. Con Karol siamo stati assieme a
lungo. Io a Roma e lui a Parigi. Poi ci siamo
riuniti. Quando ha perso la vista mi sono
trasferita definitivamente a Parigi. Siamo
diventati come due vecchi coniugi con il loro
alfabeto privato», dice.
Quando vi siete conosciuti esattamente?
«Nel 1964. Venne a una riunione del partito
comunista italiano come giornalista del
Nouvel Observateur. Quell’anno morì Togliatti.
Lasciò un memorandum che Luigi
Longo mi consegnò e che a mia volta diedi
al giornale Le Monde, suscitando la collera
del partito comunista francese».
Collera perché?
«Era un partito chiuso, ortodosso, ligio ai
rituali sovietici. Louis Aragon si lamentò
con me del fatto che avrei dovuto dare a lui
quello scritto. Lui si sarebbe fatto carico di
una bella discussione in seno al partito. Per
poi non concludere nulla. Era tipico».
Cosa?
«Vedere questi personaggi autorevoli,
certo, ma alla fine capaci di pensare solo ai
propri interessi».
Ma non era comunista?
«Era prima di tutto insopportabile. Rivestito
della fatua certezza di essere “Louis
Aragon”! Ne conservo un ricordo fastidioso.
La casa stupenda in rue Varenne. I ritratti
di Matisse e Picasso che lo omaggiavano come
un principe rinascimentale. Che dire?
Provavo sgomento. E fastidio».
Lei come è diventata comunista?
«Scegliendo di esserlo. La Resistenza ha
avuto un peso. Come lo ha avuto il mio professore
di estetica e filosofia Antonio Banfi.
Andai da lui, giuliva e incosciente. Mi dicono
che lei è comunista, gli dissi. Mi osservò,
incuriosito. E allarmato. Era il 1943.
Poi mi suggerì una lista di libri da leggere.
Tra cui Stato e rivoluzione di Lenin. Divenni
comunista all’insaputa dei miei,
soprattutto di mio padre. Quando
lo scoprì si rivolse a me con
durezza. Gli dissi che l’avrei
rifatto cento volte. Avevo un
tono cattivo, provocatorio.
Mi guardò con stupore. Replicò
freddamente: fino a
quando non sarai indipendente
dimentica il comunismo
».
E lei?
«Mi laureai in fretta. Poi
cominciai a lavorare da
Hoepli. Nella casa editrice,
non lontano da San
Babila, svolgevo lavoro
redazionale, la sera
frequentavo il partito
».
Tra gli anni Quaranta
e i Cinquanta
era forte il richiamo
allo stalinismo. Lei
come lo visse?
«Oggi parliamo di
stalinismo. Allora
non c’era questo riferimento.
Il partito aveva una
struttura verticale. E non è che si faceva
quello che si voleva. Ma ero abbastanza libera.
Sposai Rodolfo, il figlio di Banfi. Ho
fatto la gavetta nel partito. Fino a quando
nel 1956 entrai nella segreteria. Mi fu affidato
il compito di rimettere in piedi la casa
della cultura».
Lei è stata tra gli artefici di quella egemonia
culturale oggi rimproverata ai comunisti.
«Quale egemonia? Nelle università non
ci facevano entrare».
Ma avevate le case editrici, il cinema, il
teatro.
«Avevamo soprattutto dei rapporti personali
».
Ma anche una linea da osservare.
«Togliatti era mentalmente molto più libero
di quanto non si sia poi detto. A me il
realismo sovietico faceva orrore. Cosa posso
dirle? Non credo di essere stata mai stalinista.
Non ho mai calpestato il prossimo. A
volte ci sono stati rapporti complicati. Ma
fanno parte della vita».
Con chi si è complicata la vita?
«Con Anna Maria Ortese, per esempio.
L’aiutai a realizzare un viaggio in Unione
Sovietica. Tornando descrisse un paese povero
e malandato. Non ne fui contenta. Pensai
che non avesse capito che il prezzo di
una rivoluzione a volte è alto. Glielo dissi.
Avvertii la sua delusione. Come un senso di
infelicità che le mie parole le avevano provocato.
Poi, improvvisamente, ci abbracciammo
scoppiando a piangere».
Pensava di essere nel giusto?
«Pensavo che l’Urss fosse un paese giusto.
Solo nel 1956 scoprii che non era quello
che avevo immaginato».
Quell’anno alcuni restituirono la tessera.
«E altri restarono. Anche se in posizione
critica. La mia libertà non fu mai seriamente
minacciata né oppressa. Il che non significa
che non ci fossero scontri o critiche pesanti.
Scrissi nel 1965 un articolo per Rinascita
su Togliatti. Lo paragonavo al protagonista
de Le mani sporche di Sartre. Quando il
pezzo uscì Giorgio Amendola mi fece a pezzi.
Come ti sei permessa di scrivere una cosa
così? Tra i giovani era davvero il più intollerante
».
Citava Sartre. Era molto vicino ai comunisti
italiani.
«Per un periodo lo fu. In realtà era un movimentista.
Con Simone De Beauvoir venivano
tutti gli anni in Italia. A Roma alloggiavano
all’Hotel Nazionale. Lo vedevo regolarmente.
Una sera ci si incontrò a cena anche
con Togliatti».
Dove?
«In una trattoria romana. Era il 1963. Togliatti
era incuriosito dalla fama di Sartre
e quest’ultimo guardava al capo dei comunisti
italiani come a una risorsa politica. Certamente
più interessante dei comunisti
francesi. Però non si impressionarono l’un
l’altro. La sola che parlava di tutto, ma senza
molta emotività, era Simone. Quanto a
Sartre era molto alla mano. Mi sorpresi solo
quando gli nominai Michel Foucault.
Reagì con durezza».
Foucault aveva sparato a zero contro
l’esistenzialismo. Si poteva capire la reazione
di Sartre.
«Avevano due visioni opposte. E Sartre
avvertiva che tanto Foucault quanto lo
strutturalismo gli stavano tagliando, come si
dice, l’erba sotto i piedi».
Ha conosciuto Foucault personalmente?
«Benissimo: un uomo di una dolcezza rara.
Studiava spesso alla Biblioteca Mazarine.
E certi pomeriggi veniva a prendere il tè
nella casa non distante che abitavamo con
Karol sul Quai Voltaire. Era un’intelligenza
di primordine e uno scrittore meraviglioso.
Quando scoprì di avere l’Aids, mi commosse
la sua difesa nei riguardi del giovane
compagno».
Un altro destino tragico fu quello di Louis
Althusser.
«Ero a Parigi quando uccise la moglie. La
conoscevo bene. E ci si vedeva spesso. Un’amica
comune mi chiamò. Disse che Helene,
la moglie, era morta di infarto e lui ricoverato.
Naturalmente le cose erano andate in
tutt’altro modo».
Le cronache dicono che la strangolò. Non
si è mai capita la ragione vera di quel gesto.
«Helene venne qualche giorno prima da
me. Era disperata. Disse che aveva capito a
quale stadio era giunta la malattia di
Louis».
Quale malattia?
«Althusser soffriva di una depressione
orribile e violenta. E penso che per lui fosse
diventata qualcosa di insostenibile. Non
credo che volesse uccidere Helene. Penso
piuttosto all’incidente. Alla confusione
mentale, generata dai farmaci».
Era stato uno dei grandi innovatori del
marxismo.
«Alcuni suoi libri furono fondamentali.
Non le ultime cose che uscirono dopo la sua
morte. Non si può pubblicare tutto».
A proposito di depressione vorrei chiederle
di Lucio Magri che qualche anno fa, era il
2011, scelse di morire. Lei ebbe un ruolo in
questa vicenda. Come la ricorda oggi?
«Lucio non era affatto un depresso. Era
spaventosamente infelice. Aveva di fronte a
sé un fallimento politico e pensava di aver
sbagliato tutto. O meglio: di aver ragione,
ma anche di aver perso. Dopo aver litigato
tante volte con lui, lo accompagnai a morire
in Svizzera. Non mi pento di quel gesto. E
credo anzi che sia stata una delle scelte più
difficili, ma anche profondamente umane».
Tra le figure importanti nella sua vita c’è
stata anche quella di Luigi Pintor.
«Lui, ma anche Aldo Natoli e Lucio Magri.
Tre uomini fondamentali per me. Non si
sopportavano tra di loro. Cucii un filo esile
che provò a tenerli insieme».
Parlava di fallimento politico. Come ha vissuto
il suo?
«Con la stessa intensa drammaticità di
Lucio. Quello che mi ha salvato è stata la
grande curiosità per il mondo e per la cultura.
Quando Karol era bloccato dalla malattia,
mi capitava di prendere un treno la
mattina e fermarmi per visitare certi posti
meravigliosi della provincia e della campagna
e tornare la sera. Godevo della bellezza
dei luoghi che diversamente dall’Italia
non sono stati rovinati».
Se non avesse fatto la funzionaria comunista
e la giornalista cosa avrebbe voluto fare?
«Ho una certa invidia per le mie amiche
– come Margarethe von Trotta – che hanno
fatto cinema. In fondo i buoni film come i
buoni libri restano. Il mio lavoro, ammesso
che sia stato buono, è sparito. In ogni caso,
quando si fa una cosa non se ne fa un’altra».
Il suo esser comunista avrebbe potuto convivere
con qualche forma di fede?
«Non ho più un’idea di Dio dall’età di 15
anni. Ma le religioni sono una grande cosa.
Il cristianesimo è una grande cosa. Paolo o
Agostino sono pensatori assoluti. Ho amato
Dietrich Bonhoeffer. Straordinario il suo
magistero. E il suo sacrificio».
Si accetta più facilmente la disciplina di
un maestro o quella di un padre?
«I maestri li scegli, o ti scelgono. I padri
invece no».
Il rapporto con suo padre come è stato?
«Era un uomo all’antica. Parlava greco e
latino. Si laureò a Vienna. C’era molta apprensione
economica in famiglia. La crisi
del 1929 colpì anche noi che eravamo parte
dell’impero austro-ungarico. Il nostro rapporto,
bello, lo rovinai con parole inutili.
Con mia madre, più giovane di vent’anni,
eravamo in sintonia. Sembravamo quasi sorelle.
Si scappava in bicicletta per le stradine
di Pola».
Dove lei è nata?
«Sì, siamo gente di confine. Gente istriana,
un po’ strana».
Si riconosce un lato romantico?
«Se c’è si ha paura di tirarlo fuori. Non
c’è donna che non senta forte la passione.
Dai 17 anni in poi ho spesso avvertito la necessità
dell’innamoramento. E poi ho avuto
la fortuna di sposare due mariti, passabilmente
spiritosi, che non si sono mai sognati
di dirmi cosa fare. Ho condiviso parecchie
cose con loro. Poi i casi della vita a volte remano
contro».
Come vive il presente, questo presente?
«Come vuole che lo viva? Metà del mio
corpo non risponde. E allora ne scopri le
miserie. Provo a non essere insopportabile
con chi mi sta vicino e penso che in ogni caso
fino a 88 anni sono stata bene. Il bilancio,
da questo punto di vista, è positivo. Mi
dispiacerebbe morire per i libri che non
avrò letto e i luoghi che non avrò visitato.
Ma le confesso che non ho più nessun attaccamento
alla vita».
Ha mai pensato di tornare in Italia?
«No. Qui in Francia non mi dispiace non
essere più nessuna. In Italia la cosa mi infastidirebbe
».
È l’orgoglio che glielo impedisce?
«È una componente. Ma poi che Paese
siamo? Boh».
E le sue radici: Pola? L’Istria?
«Cosa vuole che siano le radici. Non ci
penso. La vera identità uno la sceglie, il resto
è caso. Non vado più a Pola da una quantità
di anni che non riesco neppure a contarli.
Ricordo il mare istriano. Alcuni isolotti
con i narcisi e i conigli selvaggi. Mi manca
quel mare: nuotare e perdermi nel sole
del Mediterraneo. Ma non è nostalgia. Nessuna
nostalgia è così forte da non poter essere
sostituita dalla memoria. Ogni tanto mi
capita di guardare qualche foto di quel
mondo. Di mio padre e di mia madre. E penso
di essere nonostante tutto una parte di loro
come loro sono una parte di me».


Antonio Gnoli