DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Storia di Kendrick Lamar, il rapper nero che spezza lo schema politicamente corretto del noi-contro-loro. I college prendano nota


Mattia Ferraresi

New York. Gli orgogliosi difensori dell’identità afroamericana,
gli indossatori di magliette “Black Lives Matter” e le centinaia di
migliaia, anzi i milioni di americani che per mesi hanno manifestato
in solidarietà alle vittime della violenza a sfondo razziale a
Ferguson, Staten Island e altrove, hanno molto apprezzato il testo
socialmente impegnato dell’ultima canzone di Kendrick Lamar,
“The Blacker the Berry”, almeno fino all’ultimo verso. Quando
hanno letto la conclusione hanno apprezzato già meno. La canzone
del rapper – anzi del writer – più famoso della sua generazione
è un ritmico sfogo contro l’odio razziale a cui è sottoposta
la cultura afroamericana: “Sono afroamericano, sono nero come
il cuore di un ariano”, “vengo dal fondo dell’umanità”, “mi odi,
no?”, “il vostro piano è di sterminare la mia cultura, siete malvagi
e voglio che riconosciate che sono una scimmia orgogliosa”,
“scusate il francese ma ‘fuck you’”, canta il ventisettenne di Compton,
sobborgo poverissimo di Los Angeles e una delle roccaforti
dei Crips. Lamar raramente opta per le mezze misure e anche in
questo caso sbatte in faccia la sua verità alla cultura dell’odio,
alla cultura bianca che discrimina e uccide, quella dei poliziotti
che strangolano Eric Garner perché vende sigarette all’angolo
della strada e nemmeno vengono incriminati, la cultura segregazionista
per cui la vita di un nero non conta, non vale. Epperò l’ultimo
verso cambia tutta la prospettiva: “E allora perché ho pianto
quando Trayvon Martin era sulla strada, mentre le gang mi hanno
fatto uccidere un nero più nero di me? Ipocriti!”. Il narratore
della canzone, che è un po’ la coscienza afroamericana, la personificazione
della comunità, dice, in sostanza, che non solo per i
bianchi la vita di un nero non conta. Non è un’esclusiva razziale.
Ci sono neri che si uccidono fra loro tutti i giorni, e se non ami te
stesso come puoi amare gli altri?, come scriveva Lamar in “i”,
uscita qualche mese fa. Piangere e manifestare per Trayvon Martin,
il ragazzo disarmato ucciso in Florida da una guardia giurata,
e poi tornare alla guerra intestina fra gang, al rapper sembra
soltanto un’enorme ipocrisia.
La cosa ha dato scandalo, naturalmente, perché esce dal codice
del politicamente corretto. L’accusa contro il potere dei bianchi
è una commendevole manifestazione di dissenso, ma l’idea dei
neri che disprezzano i neri non si porta in società, è culturalmente
bandita, come certe espressioni che l’Università del Michigan
sta mettendo fuori legge all’interno del campus. Nel college simbolo
dell’attivismo radicale e del politicamente corretto, cartelli
invitano a non usare espressioni figurate del tipo “voglio morire”,
per non urtare la sensibilità di chi ha tentato il suicidio. Lamar
è socialmente impegnato, crede nelle battaglie per i diritti civili,
è orgoglioso del ghetto da cui proviene e teme chi vuole sterminare
la sua cultura, ma esce dallo schema binario del noi-contro-
loro che è stato il motore di mesi di proteste, mesi in cui il reverendo
Al Sharpton ha dovuto fare gli straordinari. La canzone
di Lamar era piaciuta a tutti, fino all’ultimo verso. In cauda venenum,

come si dice nella periferia di Los Angeles.

Il Foglio 13 febbraio 2015