DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

27 SETTEMBRE 2016



STAVOLTA IL PAPA CI REGALA LE PAROLE PER INVITARE AD ASCOLTARE LE CATECHESI.... 

E CHE COMUNIONE CON CHI, DA TANTI ANNI, INSTANCABILMENTE, ANNUNCIA "IL CENTRO" ATTORNO AL QUALE TUTTO RUOTA ATTRAVERSO IL CAMMINO NEOCATECUMENALE

Questo centro attorno al quale tutto ruota, questo cuore pulsante che dà vita a tutto è l’annuncio pasquale, il primo annuncio: il Signore Gesù è risorto, il Signore Gesù ti ama, per te ha dato la sua vita; risorto e vivo, ti sta accanto e ti attende ogni giorno. Non dobbiamo mai dimenticarlo. In questo Giubileo dei catechisti, ci è chiesto di non stancarci di mettere al primo posto l’annuncio principale della fede: il Signore è risorto. Non ci sono contenuti più importanti, nulla è più solido e attuale. Ogni contenuto della fede diventa bello se resta collegato a questo centro, se è attraversato dall’annuncio pasquale. Invece, se si isola, perde senso e forza. Siamo chiamati sempre a vivere e annunciare la novità dell’amore del Signore: “Gesù ti ama veramente, così come sei. Fagli posto: nonostante le delusioni e le ferite della vita, lasciagli la possibilità di amarti. Non ti deluderà”. (Papa Francesco, Omelia nella Messa per il Giubileo dei catechisti, 25 settembre 2016)


UN CATECHISTA VEDE LONTANO E PER QUESTO NON E' "LAMENTOSO" MA ANNUNCIA LA GIOIA E LA SPERANZA

La vita opulenta di quest’uomo senza nome è descritta come ostentata: tutto in lui reclama bisogni e diritti. Anche da morto insiste per essere aiutato e pretende i suoi interessi. La povertà di Lazzaro, invece, si esprime con grande dignità: dalla sua bocca non escono lamenti, proteste o parole di disprezzo. È un insegnamento valido: come servitori della parola di Gesù siamo chiamati a non ostentare apparenza e a non ricercare gloria; nemmeno possiamo essere tristi o lamentosi. Non siamo profeti di sventura che si compiacciono di scovare pericoli o de­viazioni; non gente che si trincera nei propri ambienti, emettendo giudizi amari sulla società, sulla Chiesa, su tutto e tutti, inquinando il mondo di negatività. Lo scetticismo lamentevole non appartiene a chi è familiare con la Parola di Dio. Chi annuncia la speranza di Gesù è portatore di gioia e vede lontano, ha orizzonti, non ha un muro che lo chiude; vede lontano perché sa guardare al di là del male e dei problemi. Al tempo stesso vede bene da vicino, perché è attento al prossimo e alle sue necessità. Il Signore oggi ce lo chiede: dinanzi a tanti Lazzaro che vediamo, siamo chiamati a inquietarci, a trovare vie per incontrare e aiutare, senza delegare sempre ad altri o dire: “ti aiuterò domani, oggi non ho tempo, ti aiuterò domani”. E questo è un peccato. Il tempo per soccorrere gli altri è tempo donato a Gesù, è amore che rimane: è il nostro tesoro in cielo, che ci procuriamo qui sulla terra. In conclusione, cari catechisti e cari fratelli e sorelle, il Signore ci dia la grazia di essere rinnovati ogni giorno dalla gioia del primo annuncio: Gesù è morto e risorto, Gesù ci ama personalmente! Ci doni la forza di vivere e annunciare il comandamento dell’amore, superando la cecità dell’apparenza e le tristezze mondane. (Papa Francesco, Omelia nella Messa per il Giubileo dei catechisti, 25 settembre 2016)


L'IMPORTANZA DELLE SUORE NEGLI OSPEDALI E LO SPIRITO CHE LE ANIMA (UNA PAROLA ANCHE PER CHI E' AL SERVIZIO DI PERSONE MALATE)

La Chiesa sente come suo impegno e sua responsabilità la vicinanza a quanti soffrono, per portare ad essi consolazione, conforto e amicizia. Voi dedicate la vostra vita soprattutto al servizio di fratelli e delle sorelle che sono ricoverati negli ospedali, perché grazie alla vostra presenza e professionalità si sentano maggiormente sostenuti nella malattia. E per fare questo non c’è bisogno di lunghi discorsi: una carezza, un bacio, stare accanto in silenzio, un sorriso. Non arrendetevi mai in questo servizio così prezioso, nonostante tutte le difficoltà che potete incontrare. Talvolta, ai nostri giorni, una cultura laicista mira a togliere anche dagli ospedali ogni riferimento religioso, a partire dalla presenza stessa delle Suore. Quando questo avviene, però, si accompagna non di rado a dolorose carenze di umanità, davvero stridenti nei luoghi di sofferenza. Non stancatevi di essere amiche, sorelle e madri degli ammalati; la preghiera sia sempre la linfa che sostiene la vostra missione evangelizzatrice. Quando vi accostate ad ogni ammalato abbiate nel cuore la pace e la gioia che sono frutto dello Spirito Santo. Su quel letto di ospedale giace sempre Gesù, presente in quella persona che soffre, ed è Lui che chiede aiuto a ciascuna di voi. E’ Gesù. Alle volte uno può pensare: “Alcuni ammalati danno fastidio”. Ma anche noi diamo fastidio al Signore, e ci sopporta e ci accompagna! La vicinanza a Gesù e ai più deboli sia la vostra forza. (Papa Francesco alle Suore Ospedaliere, 24 settembre 2016)

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LA CROCE? UN PUNTO DI DOMANDA
di Karol Wojtyla

Che cos’è la croce? Direi che è soprattutto un simbolo eterno, è una domanda dell’uomo che non tace mai. Basta ascoltare il pianto di un bambino piccolo per poter scoprire in esso questa domanda. Basta passare per le vie dell’antica città di Cracovia e di Nowa Huta, non solo dentro gli ospedali, i luoghi delle malattie, della prigionia, ma anche dentro numerose abitazioni; forse basterebbe passare fra noi: come spesso si ripeterà questa domanda! È una domanda legata alla sofferenza. L’uomo che soffre, l’uomo che viene provato dalla sofferenza, che la sperimenta, sempre chiede: perché?
È una domanda legata alla croce: la domanda della croce, una domanda molto diffusa. Tutti, quasi fin dai primi istanti della vita, la sentiamo come la nostra domanda. E forse per questo andiamo in pellegrinaggio verso la croce, perché essa è una questione fondamentale della nostra vita terrena. A volte questa domanda procede di pari passo con la risposta. A volte, quando vediamo la sofferenza umana, pensiamo che sia una conseguenza di qualche causa, che sia un castigo per qualche colpa. Possiamo sempre dire così? Ma forse, più spesso, la domanda legata alla sofferenza umana – la domanda che riguarda la croce – rimane senza una chiara risposta. Qui nei pressi, a Pleszów, sono andato a visitare i bambini nell’Istituto infantile dei disabili mentali. Così simpatici, così innocenti e tanto infelici. E l’uomo deve chiedersi: perché?
Possiamo dire che siano colpevoli i genitori? A volte proprio i genitori innocenti innalzano la seguente domanda: perché? Le domande sulla croce aumentano. A volte le domande sulla croce si accumulano nella vita di una particolare persona, si accumulano nella vita delle società, nella vita dell’umanità.
Eppure nella croce sta la risposta per tantissime persone che soffrono. La croce è una risposta, è l’unica risposta. Perché molto spesso mancano risposte umane, spiegazioni umane. Perché soffre un bambino, una persona, un prigioniero, una nazione? La croce è l’unica risposta. Sicuramente possiamo indicare moltissime persone, forse anche fra noi, per le quali nella sofferenza la croce è stata l’unica risposta.
Pensiamo allora così: soffro, ma anche Dio che divenne uomo soffrì. Soffro, guardo Lui, vedo la sua croce. La croce è una domanda e una risposta. È questo soltanto il primo grado della nostra riflessione sulla croce. Molto spesso dalla risposta, che è la croce, nasce un’ulteriore domanda: perché Dio, che divenne uomo, perché il Figlio di Dio ha dovuto soffrire e morire sulla croce? Questa domanda si potrebbe considerare di secondo grado.
Ma su questo secondo grado molto spesso subentra l’uomo, il suo pensiero, la sua riflessione umana e cristiana. Si potrebbero indicare molte persone, numerosi poeti, pensatori che si sono posti questa domanda di secondo grado: perché? A tale domanda troviamo la risposta nella Rivelazione: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
Ecco la risposta. La risposta alla domanda di secondo grado, come ho detto, è l’amore. La croce corrisponde all’amore. La croce spiega l’amore universale. Ma dobbiamo dirci, miei cari fratelli, che proprio per il fatto che la croce spiega l’amore, che la croce rivela Dio amore, proprio per questo lui è una tale domanda. Quando guardiamo Cristo nel momento in cui va verso la croce, vediamo dei momenti di una giustizia assoluta. Quando nell’orto degli ulivi dice: «Allontana da me questo calice» (Lc 22,42). E non viene ascoltato.
Certo, è stato esaudito nella seconda parte della sua preghiera: «Non ciò che io voglio, ma quello che Tu vuoi». Allora vengono alla mente le altre parole di un apostolo che ha scritto: «Dio neppure al proprio Figlio ha risparmiato ciò» (Rm 8,32). Questa costituisce la base dell’amore, che «ha dato il suo Figlio unigenito», affinché nessuno di noi perisca. È il mistero della croce: sapete come conducono lontano queste domande e risposte, che grazie alla luce della nostra fede giungono a noi. Nella croce c’è la misura suprema delle questioni umane, una misura così grande che supera la misura dell’uomo.
È la conseguenza della nostra grandezza originaria. È la conseguenza del fatto che siamo creati a immagine e somiglianza di Dio e che la nostra vita, i nostri atti vengono misurati secondo una misura non solo umana, ma anche divina. Siccome noi uomini, soprattutto dopo il peccato – tutti siamo dopo il peccato –, non riusciamo a portare questa misura, allora occorreva la croce, sulla quale fu appeso il Figlio di Dio affinché a noi uomini venisse ripristinata la misura di Dio nella vita e negli atti.
Il Crocifisso aiuta sempre ciascuno di noi a ritrovare questa misura. Ci insegna come è grande la responsabilità dell’uomo per l’uomo, per l’umanità, per la dignità umana. E quando l’uomo sente che non riesce ad assumere questa re­sponsabilità, lo aiuta. Il mistero della croce passa nel profondo delle nostre anime.
Sentiamo dentro di noi queste dimensioni di Dio, le sentiamo in modo più intenso quando cadiamo nel peccato: allora è necessaria la coscienza umana, per purificarci, per rialzarci. Ma la necessità della coscienza umana è nello stesso tempo umana e divina.
L’uomo desidera fortemente recuperare questa originaria misura divina, con la quale Dio l’ha misurato e alla quale Dio non rinuncia mai. Miei cari fratelli e sorelle, so di essere audace, ma questa audacia è dovuta al desiderio di toccare le questioni di Dio, i misteri di Dio, che umanamente sono impronunciabili. Ma oggi perdonatemi questa audacia e accettate; se nelle mie parole c’è una luce, accettatele".
Cardinale Wojtyla al santuario della Santa Croce a Mogila di Nowa Huta, presso Cracovia, il 20 settembre 1970.

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PER HILLARY CLINTON LA FEDE RELIGIOSA È IL NEMICO, E VA FERMATA



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DEGRADO DELL'ARTE RELIGIOSA E CRISI DI FEDE

"Lo scadimento pauroso della cosiddetta arte sacra è lo specchio di una crisi spirituale. Perché la bellezza appartiene alla dimensione spirituale. Una vecchia formula dice: Ars orandi, ars credendi (“Dimmi come preghi e ti dirò quale è la tua fede”). Ne propongo una parafrasi: Ars aedificandi, ars credendi (“Dimmi come costruisci le tue chiese e ti dirò qual è la tua fede”). Il cemento di Fuksas è una prova dell’esistenza del Maligno. (Flavio Cuniberto, Il Giornale, 27 settembre 2016)

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IL SEME SCELTO A PIACIMENTO: LA NUOVA APPLICAZIONE "ORDINA UN PAPA'". LA VITA RIDOTTA A SHOPPING

Quante donne vogliono un bambino, ma non hanno sottomano un uomo disposto a fare il papà? E magari hanno anche fretta, un lavoro impegnativo, o anche scarsa propensione a corteggiamenti, sesso, e altri fastidi? Beh, adesso c’è una app apposta per loro. Si chiama «ordina il papà» (order a daddy), e costa 950 sterline, compresa la fornitura del primo campione di sperma del daddy ordinato. L’ordine prevede (ma questo avveniva già con le cliniche «tradizionali», si fa per dire) specificando sulla app le caratteristiche desiderate del padre digitale, sperando forse che si trasmettano al figlio: altezza, colore degli occhi, capelli. Ma anche livello di studi raggiunto e aspetti di personalità preferiti. «Ordina il papà» arriva dunque dove né le separazione, né il divorzio, né la soppressione fisica del marito (diretta o tramite mercenari) erano finora arrivate: far sparire il padre prima ancora del concepimento, ottenendone però ciò che si ritiene utile: lo sperma. Il padre entra ora nella realtà virtuale, come i Pokemon. E meno male che adesso in Inghilterra il «donatore» di seme deve almeno lasciare le generalità, perché la prima legge in materia, che lo prevedeva anonimo, aveva suscitato infiniti problemi di ordine medico (verifica di predisposizioni genetiche) e psicologico. È reperibile in casi estremi, il papà digitale, ma per il resto è del tutto assente. Non è mai entrato, questo papà virtuale, nella realtà familiare: di certo nel lettone matrimoniale, ma neppure si è mai seduto a tavola con madre e figlio, o è mai stato toccato da qualcuno di loro. Un daddy fantasma. Ed è questo il problema. Che peserà, e molto nella vita del figlio. Perché il padre non è un ortaggio, o qualunque altra cosa ordinata secondo le modalità della spesa online, scrupolosamente seguite dalla app ordina un papà. È un essere umano, legato al figlio da una profondissima esperienza sensoriale. Cominciata addirittura da prima che nascesse, quando lo sentiva muovere accanto alla madre, ne sentiva la voce, il tono. Era il primo «altro» al di fuori di «loro», la madre e il figlio. La vita di relazione, la capacità di interagire con l'esterno, di sentire, è cominciata anche da lì. Il padre è inizialmente questo: un'esperienza sensoriale. A partire dalla quale se ne organizzano molte altre, a cominciare dalle tue relazioni col mondo maschile. Che, altrimenti, rimangono appese al nulla della realtà virtuale. La vita umana, però, non è un’esperienza virtual-commerciale, come la spesa. È una storia corporea, e affettiva. Che si organizza attorno al cuore, e i sensi. Poi, certo, anche al cervello, e all'eventuale conto in banca. Ma dopo. Senza cuore, sensi, senza un papà in carne ed ossa, che gira lì attorno ai due, alla madre e al figlio, non parte nulla. Non comincia una vita umana. (Claudio Risé, Il Giornale, 27 settembre 2016)

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POLITICAMENTE CORRETTO "SBAGLIO DELLA MENTE UMANA". L'IGNORANZA VEGANO - VEGETARIANA 

Davvero la dieta carnea è
insostenibile come afferma Daniela
Martani, la dea discinta del veganesimo.
Ma non perché fa male bensì perché fa
bene, e l’Inps non potrebbe sostenere
un ulteriore allungamento della vita: “I
giapponesi hanno aumentato il consumo
di grassi di oltre il 250 per cento a
partire dal 1961, e sono ora la popolazione
più longeva del mondo. Anche i livelli
di colesterolo sono aumentati, mentre
la pressione arteriosa e gli ictus si sono
ridotti” scrive Lierre Keith ne “Il mito
vegetariano” (Sonzogno), volumone
informatissimo sui danni causati dai cereali,
dalle patate e perfino dai legumi,
in particolare dalla soia che è responsabile
di danni alla tiroide, endometriosi,
ipospadia e perfino cancro (secondo il
ministero israeliano della Salute). Il
crescente favore popolare per tofu e miso
ha pertanto almeno un risvolto positivo,
quello previdenziale. Anche il fatto
che pochissimi leggano Lierre Keith,
mentre moltissimi guardano e perfino
ascoltano Daniela Martani, giova alla tenuta
dello stato sociale: i numerosi interessati
all’anticipo pensionistico minacciano
di pesare sul contribuente per
troppi decenni, meglio non sappiano
che “la vera vitamina A si trova solo in
alimenti di origine animale, e richiede
la presenza di grassi per poter essere
assorbita. Non esistono fonti vegetali di
vitamina A”. (Camillo Langone, Il Foglio 24 settembre 2016)

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TRISTE OLANDA SUICIDA

La settimana scorsa il Belgio ha
fatto la storia, mettendo a morte per legge
un minorenne per la prima volta. “In silenzio
e nella discrezione più assoluta nel nostro
paese un minorenne è morto per eutanasia”,
ha annunciato il quotidiano Het
Nieuwsblad. E’ stata così applicata per la
prima volta la legge del 2014 che ha sconvolto
il mondo e che consente ai genitori
di scegliere la “dolce morte” per i figli.
Nella vicina Olanda, i bambini vengono
messi a morte da anni con il cosiddetto
“Protocollo di Groningen”, redatto dai medici
della omonima clinica universitaria e
che, senza legge ma con un accordo con la
magistratura, viene impartita l’eutanasia
sotto ai dodici anni (sopra questa età la legge
olandese ha già legalizzato l’eutanasia).
Adesso, in una intervista al quotidiano AD,
è lo stesso autore di quel protocollo,
Eduard Verhagen, a scioccare ancora una
volta il mondo: “Costruiremo entro un anno
un centro specializzato nell’eutanasia
dei bambini”, ha annunciato Verhagen.
Verhagen e i pediatri olandesi non comminano
l’eutanasia soltanto ai bambini in fase
terminale, ma anche a quelli la cui
“qualità della vita” renda la stessa insopportabile.
“Bambini che non dipendono da
un trattamento medico intensivo, e la cui
sofferenza è sostenuta e grave e non può
essere alleviata in alcun modo”, li definisce
quel Protocollo di Groningen. Verhagen
personalmente l’ha fatto quattro volte.
I parametri per la “terminazione” si riducono
a un indefinibile dolore e a ciò che
chiamano “qualità della vita”. Nel 2004
Verhagen invase le prime pagine delle
principali testate internazionali con l’ammissione
che aveva praticato l’eutanasia
pediatrica. In un saggio dal titolo “The Groningen
Protocol for newborn euthanasia”,
pubblicato dal Journal of Medical Ethics,
Verhagen aveva rivelato che “due sondaggi
nazionali hanno mostrato che la maggior
parte delle morte di neonati sotto i dodici
mesi (65 per cento) è stata causata dall’interruzione
delle terapie salva vita”.
L’Associazione dei pediatri olandesi ha
proposto al governo una legge per cui l’eutanasia
non necessita del consenso dei
bimbi, ma solamente di quello dei genitori
e del medico. L’Olanda vuole sorpassare
il Belgio, perché secondo la legge controfirmata
da re Filippo “solo” i minori
che danno prova di essere coscienti possono
ottenere l’iniezione letale. L’eutanasia
pediatrica è anche entrata nelle scuole
elementari. “Eutanasia – morte normale” è
il titolo scelto per un corso nelle scuole
olandesi dall’associazione che sponsorizza
il “diritto di morire”. Per i bambini più
piccoli è stato creato uno speciale percorso
a fumetti che li guida lungo l’iter dell’eutanasia.
A inizio anno, in un editoriale su Handelsblad,
il professor Theo Boer, uno dei
padri della legge olandese sull’eutanasia,
aveva fatto autocritica, dicendo che il suo
paese ormai “galoppa verso la morte”. Il
nostro secolo ha già conosciuto gli “ospedali
per l’eutanasia infantile”. Si chiamavano
Hartheim, Sonnenstein, Grafeneck, Brandenburg
e Hadamar… Gli occhi dei più anziani
tra i civili di quei paesi dai nomi fatati
e fiabeschi si riempiono ancora di terrore
quando qualcuno evoca le lunghe camionette
nere che varcavano le porte del
castello. Per uscirne vuote. (Giulio Meotti, Il Foglio, 24 settembre 2016)

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UN RICORDO DI GIORGIO ISRAEL

Quello che consentì a Giorgio Israel di far convivere i
differenti aspetti della sua attività, fu
da un lato la visione storica e laica della
religione, e d’altra parte il punto di vista
‘culturale’ e mai soltanto tecnico della ricerca
scientifica”. Ne troviamo testimonianza fino all’ultimo
lavoro scientifico di Israel, uscito postumo
per Zanichelli qualche mese fa e intitolato
“Meccanicismo. Trionfo e miserie
della visione meccanica del mondo”.
Quella del vivente come macchina è un’idea
che appena nata entrò subito in una
crisi “interminabile”, come la definisce
Israel. Una crisi che però assomiglia a una
paradossale forma di successo. Pensiamo
all’ambizione di misurare matematicamente
manifestazioni della vita e dell’umano
come la sfera morale, ma anche fenomeni
biologici, sociali ed economici.
Quante volte ci è capitato di leggere delle
neuroscienze che “misurano” la tendenza
al tradimento, l’inclinazione ad avere una
fede, la capacità di scelta o il livello di
consapevolezza di una decisione politica?
E se l’uomo è una macchina, perché rinunciare
a misurare anche il senso del dovere,
la compassione o l’avarizia? Israel ricorda
che la prima vittima di questa impostazione
fuorviante è proprio la matematica,
strappata al suo ruolo speculativo e
costretta a misurare il non misurabile.
L’uomo ridotto a genoma e neuroni, ampiamente
modificabili, è il sogno – l’incubo
– antiumano contro cui Israel ha combattutto
con lucidità e passione. In buona
compagnia, se è vero che anche Karl Popper
affermava di considerare “la dottrina
secondo cui gli uomini sono macchine non
solo erronea, ma tendente a minare un’etica
umanistica”.
Corollario naturale di questa battaglia
che per Israel è durata una vita, è stato
l’impegno affinché i luoghi istituzionali di
trasmissione della conoscenza, dalle elementari
fino all’Università, non si riducessero,
come troviamo scritto in un documento
ministeriale francese di qualche
tempo fa, in “un self service dove si passa
per approfittare di un clima di fiducia”. E’
fin troppo facile, oltre che assai malinconico,
dover constatare come i timori di
Israel trovino sempre nuove conferme, così
come trova conferma l’ostilità a un’idea
di apprendimento matematico che non sia
solo finalizzato all’applicazione pratica.
“La matematica è una miscela di logica e
intuizione informale”, avverte Israel, e
scienza e matematica, prima di servire a
formare periti chimici o geometri, costituiscono
per tutti un’introduzione alla filosofia,
un invito a porsi domande sul mondo,
un modo per far lavorare creativamente il
pensiero. Anche di questo si parlerà in un
incontro dedicato a Israel che si terrà alla
fine di novembre a Bologna, a partire
dai temi affrontati nel suo contributo al
pamphlet “Abolire la scuola media?” (il
Mulino), scritto con Cesare Cornoldi e
uscito nel settembre 2015, pochissimi giorni
prima della sua morte. A quella domanda,
per inciso, a differenza dell’altro autore
Israel rispondeva di no. La scuola media
e la differenziazione dei tre cicli scolastici,
che oggi qualcuno vorrebbe abolire
per approdare a un’indistinta e paludosa
palestra di “autoformazione”, hanno
funzionato molto bene prima dell’affermazione
di una tendenza che vede la scuola
esclusivamente come luogo di formazione
di forza lavoro. A essere sbagliata non è la
“vecchia” scuola media ma questa idea,
dice Israel, figlia di “economisti della
scuola” che hanno lavorato alacremente
per ridurre “le pratiche di insegnamento
alla somministrazione di test e quiz”. I risultati
li conosciamo. (Nicoletta Tiliacos, Il Foglio 24 settembre 2016)

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I DISASTRI DELLA SESSUALITA' LIQUIDA

Video hard girati e diffusi con o senza
il consenso della protagonista,
filmati e foto osé sui profili Facebook
o sui telefoni portatili, rubati e divulgati
attraverso Whatsapp, riprendono
persone di tutte le età, dai dodici a sessant’anni.
Ad essere esibite sono quasi
sempre le donne, a guardare gli uomini.
La tecnologia mette in luce, nella virtualità,
un fenomeno che racconta una sessualità
reale, in cui due perversioni viaggiano
a velocità digitale, il voyeurismo e
l’esibizionismo, di cui la società di oggi è
permeata patologicamente.
Quelle dell’esibire e del guardare sono
due pulsioni sessuali infantili. I bambini,
privi di pudore, sessualmente immaturi
e spinti dalla curiosità, non si censurano
quando si tratta di spogliarsi o di guardare
gli altri mentre lo fanno. Se la persona
non è perversa, queste due pulsioni nella
vita adulta lasciano spazio ad una sessualità
matura, quella genitale. Si guarda e si
è guardati, ma è soltanto un gioco preliminare
che anticipa il rapporto sessuale.
La libertà sessuale tanto agognata e sganciata
dal fine riproduttivo non ha creato
benessere sessuale, ma la diffusione indiscriminata
del sesso, rappresentato virtualmente
in ogni ambito della vita e attraverso
tutti i mezzi di comunicazione.
Di fronte ad immagini che svelano tutto
o quasi tutto, a racconti di trasgressioni
alla Sodoma e Gomorra, non corrisponde
vero piacere ed eccitazione, ma una
sensazione che si prova per qualcosa di
già visto in eccesso, che invece di accendere
il desiderio lo spegne. Una sessualità
liquida e senza limiti in cui anche molti
giovani hanno bisogno di sostegno farmacologico
per riuscire a sostenere un
incontro sessuale.
Per il caso di Stefania Cantone e di altri
come il suo, è stata accusata la rete di
internet. In molti chiedono lezioni di educazione
digitale da impartire a scuola sin
dalla più tenera età. Quello che invece
manca è una sana educazione sessuale.
Quando il bambino scopre il pudore
smette di mostrarsi e di guardare. Gli è
stato spiegato e ha capito che ci sono
ambienti pubblici e privati e che le regole
vanno rispettate tenendo conto delle
relazioni con gli altri e con il mondo. Già
da piccoli si deve imparare che è lecito e
corretto dire di no quando la richiesta di
intimità giunge da qualcuno di cui non
sia ha completa fiducia. La sensibilità
femminile, più di quella maschile, difendeva
la sua intimità. Le donne sapevano
che se ci si sottopone allo sguardo ingordo
dell’estraneo si diventa come una casa
senza pareti, un luogo inanimato sempre
a rischio di essere saccheggiato e svilito. (Karen Rubin, Il Giornale, 27 settembre 2016)

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L'IMPORTANZA DELLA FOTOGRAFIA, LA PORTA ATTRAVERSO LA QUALE L'UOMO E' ENTRATO NELL'ETA' CONTEMPORANEA

L’uomo è entrato nell’età contemporanea quando ha iniziato a riprodurre la realtà attraverso l’obiettivo

Vittorio Sgarbi

La più grande crisi
per la pittura è negli
anni della affermazione
della fotografia,
in un combattimento mortale
che umilia la prima, rubando
la vita e la «presenza»
alle cose. La pittura insegue la
fotografia o se ne serve, ma ha
perduto il testimone nel rapporto
con la realtà. In un illuminante
libro, Verso l’invisibile
(Quinlan), Italo Zannier ci
dice che l’uomo è entrato
nell’età contemporanea quando
ha iniziato a riprodurre la
realtà attraverso la fotografia.
In tal modo è cresciuta, ed è
stata documentata, la memoria
del mondo.
Questo percorso «verso l’invisibile
», per renderlo visibile,
ci consente di avere davanti
in qualunque momento anche
quello che non c’è, di portarci
a casa, come oggi accade
in modo parossistico, ogni
porzione del mondo visto e visitato.
Davanti alla Sfinge in
Egitto, Gustave Flaubert poteva
affermare che «soltanto la
fotografia di Max [Du Camp]
avrebbe potuto descrivere
l’emozione di quell’incontro
». Tanto quel reperto è necessario
che molti, oggi, non
documentano, ma sostituiscono
con la riproduzione fotografica,
attraverso il telefonino,
la realtà che non vedono,
e che immediatamente rapiscono.
Si allineano alla rapida
evoluzione della fotografia tutte
le invenzioni e le scoperte
della scienza moderna, anche
in campo medico e farmacologico,
a partire dai raggi X, vera
e non metaforica riproduzione
dell’invisibile. Assistiamo
a un’accelerazione della
ricerca dell’uomo per conoscersi
meglio, che ha l’equivalente
soltanto nella moltiplicazione
genetica, se soltanto
consideriamo che nel 1858 gli
abitanti del mondo erano un
miliardo e 283 milioni, e oggi
sono oltre sette miliardi e 125
milioni. L’umanità si è riprodotta
con l’accelerazione con
cui le immagini hanno moltiplicato
il mondo, consentendo
di dominare l’«altrove». Le
ricerche tecniche avanzano
di decennio in decennio producendo
dagherrotipi, fotoeliografie,
zincografie, via via fino
alle attuali tecnologiche digitali
e elettroniche che prescindono
dalla stampa e che
privilegiano la riproduzione
«luminosa», fantasmatica, sopra
uno schermo, come nel
computer o nei telefoni cellulari.
Da qui, pertinentemente,
Zannier conia il neologismo
«fotofanie», ossia «apparizioni
», per distinguerle dalle fotografie
che necessitano di un
supporto cartaceo.
Nel documentatissimo studio
si misura l’avanzamento
della fotografia con le conquiste
della scienza e le scoperte
di ogni tipo, dal fonografo alla
lampadina elettrica, una vera
e propria storia dell’improvvisa
e travolgente modernizzazione
della società.
Nel 1854 la prima mostra degli
impressionisti (intuitivamente
alternativi alla riproduzione
fotografica, perseguita
dalla stessa pittura, prima e
dopo l’invenzione della fotografia)
fu ospitata, a Parigi,
nell’atelier di Nadar in boulevard
des Capucines, nel tempo
in cui si stabiliva, dunque,
quel «combattimento per
un’immagine» di cui diede
conto Luigi Carluccio in una
mostra indimenticabile a Torino,
mettendo in scena il confronto
fra Pittura e Fotografia,
a partire dalla metà dell’Ottocento.
Verso l’invisibile va oltre
e mette in relazione, quasi
deterministicamente, il continuo
passaggio dalla fotografia
ad altri prodigi, il «telegrafo
parlante», un vero e proprio
telefono, attraverso l’esperienza
di Bell e Meucci, i prototipi
di aliscafo e di elicotteri, il termometro
elettrico. Intanto la
fotografia trova soluzione anche
al problema della ripresa
a colori. Ne consegue una integra
fiducia nella scienza, la
cui conferma viene dalla sorprendente
evoluzione della fotografia
nelle varie utilità, per
documentare terremoti, eruzioni
di vulcani, eclissi di sole,
catastrofi e fenomeni naturali,
tornado.
«Immagini nuove sono promesse
quotidianamente dalla
fotografia, come quelle ottenute
dagli effetti grafici delle
scintille elettriche, altrimenti
invisibili agli occhi umani».
Tra i miracoli di quegli anni
c’è anche l’invenzione della
luce elettrica, da cui viene la
gloria della «Ville Lumière».
La sera dell’Esposizione universale
di Parigi, il 6 maggio
1889, la Tour Eiffel è scenograficamente
illuminata, e il suo
faro si può vedere a 190 km
da Parigi. L’Ottocento finisce
con i grandi viaggi transoceanici,
sia per chi cerca lavoro
sia per l’estensione del Grand
Tour ai luoghi più remoti. Nasce
così, oltre l’archeologia,
l’antropologia. Si scoprono e
si studiano altre specie di uomini,
cosiddetti primitivi, dopo
l’uomo del Rinascimento e
l’uomo moderno. Convivono
epoche distanti millenni. E la
scienza produce continue meraviglie
che mostrano come
l’uomo può superare ogni
confine. Alla fine del XIX secolo
si afferma anche il cinematografo:
la fotografia era finalmente
giunta a rivelare, in
questo suo perfezionamento,
altri aspetti dell’«invisibile»
nella «dinamica della vita».
Per Zannier il 1896 è l’«anno
zero» di un percorso che
porterà a traguardi allora ritenuti
fantascientifici: viaggi
verso la Luna, verso Marte,
trasmissione simultanea di
immagini, tecnologia elettronica
che favorisce la conoscenza
della dimensione enciclopedica
dello scibile con un
clic. Il percorso dalla fotografia
verso l’invisibile porterà,
come un penetrante occhio
divino, ai raggi X, come li definì
Wilhelm Conrad Röntgen,
che il 28 dicembre 1895 comunicò
al mondo la sua scoperta.
Le conseguenze furono
straordinarie e molteplici e
porteranno la fotografia a
uscire dalla rappresentazione
della realtà fisica verso nuovi
confini, che troviamo stabiliti
nei manifesti futuristi, dove si
afferma il primato sperimentale
del linguaggio fotografico
attraverso l’impresa dei fratelli
Anton Giulio, Arturo e Carlo
Ludovico Bragaglia, in direzione
«concettuale» (parola tanto
in voga nel linguaggio
dell’arte contemporanea):
«vogliamo vedere ciò che superficialmente
non si vede;
vogliamo ricordare la più viva
sensazione dell’espressione
profonda di una realtà indicibile
e inafferrabile».
Così, nei processi di visualizzazione
fotodinamica Bragaglia
riproduce la scia di un
corpo che si muove nello spazio,
non altrimenti percepibile
con la fotografia istantanea
che «ferma il soggetto laddove
si trovava per caso». Prima
questa realtà, impercepibile
altro che dalla fotografia, era
stata ottenuta da William
Crookes come documentazione
di una seduta spiritica, in
cui le apparizioni di una «abitatrice
d’oltretomba» sarebbero
certificate dall’immagine
fotografica. Si entra dunque
nel nuovo secolo con questo
viatico, in cui la fotografia è
protagonista, a fianco di ogni
perfezionamento scientifico e
tecnologico, scoperta dopo
scoperta, e anche «oltre», nella
dimensione «spirituale». La
pittura risponde con il Simbolismo,
e Kandinskij insegue lo
«spirituale dell’Arte» e sconfina
inevitabilmente nell’Astrattismo,
una realtà non visibile.
La fotografia occupa tutto il
campo del rappresentabile,
esteriore ed interiore. E questo,
in fondo, conferma che essa,
tra le conquiste scientifiche,
è l’unica dotata di effetti
indiretti e molteplici, ovvero
di anima, come aveva intuito,
con dispetto, come una premonizione,
Charles Baudelaire
già nel 1859: «se si permette
alla fotografia di invadere il
dominio dell’impalpabile e
dell’immaginario, soprattutto
ciò che vale perché l’uomo vi
ha aggiunto qualcosa della
sua anima, allora sventurati
noi!». Se si permette. E come
impedirlo?
Spesso, infatti, da allora la
fotografia, nella sua imprevedibile
forza evocativa, ha superato
la poesia, e ha dato parola
e vita ai morti, come sorprendentemente
si legge nel
libro Il tempo in posa di Gesualdo
Bufalino, di commento
alla scoperta di quattrocento
lastre di collodio di fotografi
di provincia, tra Comiso, Ragusa
e Chiaramonte Gulfi:
Gioacchino Iacona, Francesco
Meli, Carmelo Arezzo di
Trifiletti, Corrado Melfi. In
una di esse un uomo tiene in
mano il libro di Ibsen Quando
noi morti ci destiamo. Ecco:
la fotografia è anche, oltre
il trascendente, resurrezione
dei morti. (Il Giornale, 27 settembre 2016)

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